Cultura

Itinerari letterari tra ascese e ricadute

Itinerari letterari tra ascese e ricaduteUna immagine tratta dalla mostra «Linea Proust. Carlo Bo alla ricerca di un Proust niente affatto perduto» (Palazzo Passionei, Urbino)

TEMPI PRESENTI A Urbino «Linea Proust», nella sede della «Fondazione Carlo e Marise Bo». Fino al 28 aprile a Palazzo Passionei, in mostra le opere di alcuni lettori proverbiali della «Recherche». Si possono osservare le pagine di Giacomo Debenedetti, Giovanni Macchia e Gianfranco Contini cui rispondono quelle di Curtius, di Adorno e di Roland Barthes. Lo scrittore francese assume qui una straordinaria forza cognitiva, è un cartesiano che ha meditato Pascal ascoltando fino in fondo le cosiddette ragioni del cuore

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 17 dicembre 2022

Una delle più splendenti dimore umanistiche a Urbino, il Palazzo Passionei, è sede della «Fondazione Carlo e Marise Bo» che ospita quella che fu la più grande biblioteca privata d’Italia, all’incirca di centomila volumi, ed è oggi patrimonio dell’Università che ne eredita il lascito nei termini sia della tutela sia della conservazione attiva: è questo il caso di Linea Proust. Carlo Bo alla ricerca di un Proust niente affatto perduto (fino al 28 aprile, dal lunedì al venerdì), una mostra o si direbbe meglio istallazione curata da Tiziana Mattioli insieme con Roberto Mario Danese e la collaborazione di Elena Baldoni e Walter Raffaelli.

Collocata al secondo piano, dov’è riallestito lo studio di Carlo Bo (1911-2001) colui che in Urbino fu Magnifico Rettore a vita, critico letterario e fra i massimi testimoni del suo tempo, Linea Proust ricostruisce un rapporto tanto più intenso quanto più dissimulato e per decenni mantenuto sottotraccia. Nel vestibolo infatti sono in mostra le opere dei lettori proverbiali della Recherche e fra questi Giacomo Debenedetti, Giovanni Macchia e Gianfranco Contini cui rispondono a specchio le pagine di Curtius, di Adorno e di Roland Barthes. Non c’è ancora Bo, la cui vicenda di lettore proustiano somiglia ad una risorgiva perché una prima traccia epistolare del suo interesse risale al principio degli anni trenta quando, critico precocissimo, egli già collabora a «Il Frontespizio» e sta scrivendo il libro d’esordio, una monografia dedicata Jacques Rivière, l’uomo che ha traghettato la Recherche nel catalogo di Gallimard fungendo da editor e mallevadore. Il primo accenno di Bo a Marcel Proust è in una lettera all’amico Nicola Lisi, a riprova di un interesse primordiale che il tempo incrementerà con una serie di saggi, di articoli e qui basti pensare ai circa settecento titoli censiti nella Biblioteca (fra edizioni di Proust e relativa produzione critica) per l’allestimento della mostra.

TUTTAVIA, se visto in retrospettiva ciò che sembrava un secco ritardo appare viceversa un preciso allineamento perché se è vero che Contini pubblica nel ’47 il celebre saggio sulle paperoles (sono fogli di carta piegata o arrotolata, le escrescenze testuali su cui Proust annotava le sue infinite correzioni e varianti), è anche vero che nello stesso ’47, Bo pubblica Primi dati per Proust, purtroppo mai edito autonomamente in volume, un saggio coeso e di taglio innovativo come ha limpidamente rilevato, inaugurando la mostra, Carlo Maria Ossola che della «Fondazione Bo» è Direttore scientifico. Il Proust di Bo è antipode a quello coevo di «Solaria» perché non è il diapason che vibri al flusso della memoria né tanto meno è riducibile alla poetica delle intermittenze del cuore. Il Proust di Bo è invece uno scrittore di straordinaria forza cognitiva ed è semmai un cartesiano che abbia meditato Pascal ascoltando fino in fondo le cosiddette ragioni del cuore: «Rivière ha indicato esattamente il problema parlando di un tessuto cartesiano che regge tutta l’impalcatura del romanzo e quindi la vittoria del ragionamento contro l’imperversare di una vita apparentemente disordinata e senza controllo delle sensazioni». Corrispettivo è il senso della mostra stessa dove si entra attorniati dai facsimile delle paperoles che, nei modi di una scrittura ininterrotta, escono dai libri e si snodano per accartocciarsi a terra, mentre aleggia nell’ambiente la musica di Reynaldo Hahn, il compositore venezuelano che di Marcel fu prima amante e poi amico fedelissimo.

LA SECONDA SALA, in realtà un corridoio di raccordo, ha valore illustrativo e riproduce immagini del mondo proustiano, specialmente la Parigi del primo Novecento fotografata da Eugène Atget. Nello spazio ulteriore, quasi una camera da letto virtuale (dunque il sito proustiano per antonomasia), sono invece mostrati in anastatica testi autografi e plurime edizioni della Recherche. Bo, ovviamente, non poteva aver letto lo Swann pubblicato nel ’13 da Grasset ma comunque possedeva nella princeps tutti gli altri volumi passati a Gallimard per il tramite di Rivière. Al riguardo rileva la raffinata curatrice dell’allestimento, Tiziana Mattioli, che ci accompagna nella visita: «Bo trasfigura la Recherche in un’opera filosofica, non tanto si preoccupa dello stile o dei modelli, perché innanzitutto ha l’urgenza di comprendere quale posto occupi nella storia del romanzo occidentale l’opera di Proust. C’è un passo in cui Bo lo vede come una creatura mitologica che per vivere ha bisogno di divorare i suoi modelli, fino a metabolizzarli. Insomma Bo capisce che la storia del romanzo ricomincia da Proust e dell’opera dei Proust coglie immediatamente la valenza morale, certo non in senso edificante. Già negli anni trenta don Giuseppe De Luca, che gli ha commissionato il Rivière, lo prega di recensire il Proust di Francesco Casnati, edito nel ’33, e d’altronde nell’opera proustiana non potevano essere ignorati i temi, spinosissimi per i cattolici, della omosessualità e del rapporto con la fede. Ma Bo in un primo tempo si sottrae e non scrive la recensione però quei temi solo apparentemente o temporaneamente vengono da lui rimossi perché ancora nel ’72, sul «Corriere» per il cinquantenario, di fianco agli articoli di Macchia e di Moravia ce n’è uno suo brevissimo che si intitola Tacendo di Dio in cui scrive che il silenzio di fronte al divino non vuol dire per forza disconoscimento».

E direttamente a Carlo Bo sono dedicate le ultime due sale mentre sullo sfondo scorrono le immagini di un documentario Rai, Alla ricerca di Marcel Proust (1966), allora realizzato da un altro proustiano onorario quale Attilio Bertolucci, il cui poema terminale si intitolerà appunto La camera da letto. L’allestimento qui prende la forma di una costellazione dell’amicizia, motivo tipico di Bo, e muove dagli anni fiorentini di noviziato con i sodali della rivista «Il Frontespizio» (fra costoro Piero Bargellini e su tutti un poeta mai abbastanza rammentato, Carlo Betocchi) per arrivare a Urbino e a una cerchia di allievi elettivi (è noto che Bo non ebbe o non volle mai una sua «scuola») divenuti nel tempo studiosi benemeriti di Proust quali Carmine Zeppieri, Daniela De Agostini, Piero Toffano e in primis il grande francesista e traduttore Giovanni Bogliolo cui si deve la integrale curatela, per la Bur (2006), di Alla ricerca del tempo perduto.

PER PARTE SUA BO non ha più smesso di tornarvi ed è eloquente, per esempio, quanto scrive nel novembre del ’55 recensendo per «L’Europeo» giusto l’edizione della Correspondence fra Rivière e Proust: «Proust voleva dire innanzitutto ritrovare un senso naturale di discorso, passare dalle complicate combinazioni liriche o dalla pericolosa dilettazione barresiana a una letteratura che riportava l’uomo in primo piano e tentava una creazione totale». Accadeva a Bo di seminare termini essenziali della sua riflessione in testi periferici o occasionali e, in questo caso, l’espressione topica creazione totale va in endiadi con l’uomo in primo piano.
Qui sul serio è liquidata ogni immagine stereotipa di Proust preso tra elegia e revêrie, cultore del passato nei modi di una dilettazione accarezzata e snobistica, mentre sorge in primo piano la potenza plastica, architettonica, della sua Opera/Mondo nel cui impervio itinerario (cioè nella dialettica di perpetua ascesi e ricaduta, di passioni telluriche e di impassibili contemplazioni) si cela la ricerca di una verità di sé nel mondo, e viceversa. Nella stessa recensione Bo riferisce a Proust i tratti medesimi di Jacques Rivière, la pazienza come «volontà di intelligenza» e insieme come «bisogno di penetrazione spirituale».
Valicato l’ultimo tratto di Linea Proust, si esce da Palazzo Passionei con la coscienza di cosa significhi l’incontro fra una grande opera e qualcuno capace di accoglierla in tutta la capienza, ricevendola dentro di sé dopo averla interrogata in ogni sua fibra.

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