Il display con scritto «Bersani non risponde», le mani che tremano al giovanissimo Enzo Lattuca mentre annuncia un dolorosissimo sì «avendo coscienza di come rappresenti una sconfitta, politica ed istituzionale, personale e collettiva», il «peso sul cuore» di Barbara Pollastrini, il voto con il lutto al braccio di Sel, quello con un libro di Dossetti di Giulio Marcon, la dichiarazione solenne in aula di Guglielmo Epifani: «Parigi val bene una messa, ma fini giusti implicano mezzi giusti. Con dispiacere, io e altri, non parteciperemo al voto».

Sono i flash della prima giornata del referendum su Renzi, così lui stesso ha voluto presentare le tre fiducie all’Italicum. La prima finisce con 352 sì, 207 no e un astenuto.Per la ministra Boschi i numeri sono «in linea con le precedenti fiducie»m per il vicecapogruppo Rosato sono «un ottimo risultato». In realtà aveva detto che i no si sarebbero contati su una mano. E infatti la notizia è che il dissenso dem batte un colpo: 38 i deputati non partecipano al voto. Tra loro ci sono gli ex segretari Bersani ed Epifani, l’ex premier Letta, gli ex presidenti Pd Bindi e Cuperlo, l’ex capogruppo Speranza. Gli altri: Roberta Agostini, Albini, Bossa, Bruno Bossio, Capodicasa, Cimbro, Civati, Cuperlo, D’Attorre, Fabbri, Farina, Folino, Fontanelli, Fossati, Galli, Giorgis, Gnecchi, Gregori, Laforgia, Leva, Maestri, Malisani, Meloni, Miotto, Mugnato, Murer, Piccolo, Pollastrini, Stumpo, Vaccaro, Zappulla, Zoggia. Tutti, all’unisono, hanno votato «non contro il governo ma contro una fiducia che non doveva essere apposta». I boatos del Transatlantico li descrivono come un manipolo manovrato da D’Alema, che in una famosa riunione romana aveva invitato la minoranza «a muoversi con coerenza e definire i punti invalicabili con assoluta intransigenza», e poi «assestare colpi». Il colpo è arrivato. Ma fra i giovani che non votano c’è chi di strateghi della ’vecchia guardia’ non vuole sentir parlare. Come Nico Stumpo: «Area riformista è nata sul binomio responsabilità e autonomia. Ma responsabilità è anche far sapere fuori dal palazzo che minoranza non significa dire sempre sì. Oggi i Pd è Renzi, domani sarà Roberto Speranza».

È il preannuncio di una battaglia congressuale? «Se Renzi anticipa il congresso prendiamo il 3 per cento e siamo morti», sbotta un deputato che ha votato sì. La verità è che area riformista, cioè quel che resta del paccone di mischia bersaniano (e di cui Stumpo stesso è il coordinatore) di fatto non esiste più. Martedì, dopo un litigio andato avanti fino alle due di notte, la corrente si è spaccata. Ieri, a pochi minuti dal voto, in cinquanta hanno annunciato un documento con il solito ’sì nonostante tutto’. «Non diventerò renziano, ma non ho capito la scelta del no dov’è maturata. Qualcuno fa riunioni e poi pretende di dare la linea?», chiede il romano Marco Miccoli. Quelli che hanno votato no, accusati di «estremismo», ora regolano i conti: «Da oggi le minoranze congressuali non esistono più. Da oggi c’è una minoranza, che non dice sempre sì, che si è già distinta nel jobs act, e che sull’Italicum mantiene fede ai principi del Pd», annuncia Stefano Fassina, più disteso dopo giorni di buio pesto. Alla scissione non pensa nessuno, tranne Civati che ogni giorno racconta il suo travaglio tra restare o andare. Cuperlo, che nel voto ha perso qualche deputato dei pochi suoi, è granitico: «Resto. Ma rivolgo un appello ulteriore a Renzi. Un campo non va mai diviso, un partito non va mai spezzato». Né scissione dunque, né gruppo autonomo, di cui pure si era parlato. Ma il problema resta: «Al senato già 24 dem non hanno votato l’Italicum. Dispiace che nessuno se ne sia accorto, ma il Pd era già spaccato allora e l’esecutivo aveva una maggioranza solo in outsourcing», ricorda Civati. Ora la vita delle riforme costituzionali dipende da quei 24 voti. Non a caso da Palazzo Madama arriva la solidarietà di Miguel Gotor, centravanti dei senatori dissenzienti.

Insomma Renzi ha vinto, ma il rischio è che sia una vittoria di Pirro. Il motivo che lo ha spinto a mettere la fiducia sull’Italicum ora è evidente: «Senza la fiducia e con i voti segreti il premio alla lista sarebbe saltato. Sarebbero tornate le coalizioni, con gli zero virgola che dettano legge alle maggioranze. E noi con quella storia abbiamo chiuso», spiega un dirigente di rango. Nel Pd il clima è pesante. Ricucire sembra una missione impossibile, soprattutto perché Renzi fin qui anzi ha cercato lo scontro con la minoranza. «Lo strappo lo ha fatto lui, ora la mossa spetta a lui», sospira Danilo Leva.

Il presidente Matteo Orfini non ci sta: «Questa drammatizzazione è un errore. Ma non ci facciano lezioni di democrazia quelli che ci hanno fatto votare la fiducia senza discussione al governo con Berlusconi o a un ministro non propriamente difendibile come la Cancellieri. È incomprensibile che i dirigenti che guidavano il partito in quella fase, non votino la fiducia. Ora mi auguro che nelle prossime ore prevalga il buonsenso. Oltretutto non si può affermare che la democrazia è in pericolo perché ci sono 100 collegi anziché 80». Non è precisamente un’offerta di pace. Oggi alla camera gli altri due voti di fiducia. Martedì gran finale, con il voto segreto sulla legge. Qui il dissenso annunciato sarebbe più ampio dei 38 di ieri.