Essere definito «arrogante» da Massimo D’Alema, con annesse polemiche, non lo ha preoccupato. Forse però è stato proprio questo a ispirargli l’idea di sferrare l’ultimo affondo sulle minoranze Pd nel momento della massima esposizione mediatica delle proprie divisioni. Per questo ieri Matteo Renzi, nella casacca di segretario del Pd, è partito in contropiede convocando una riunione della direzione sull’Italicum e sulle riforme per lunedì prossimo. Mossa inaspettata: fin qui era opinione diffusa che il fatidico voto sull’Italicum alla camera, quello per cui la minoranza ha lanciato avvertimenti e ultimatum, sarebbe arrivato più avanti, a maggio, dopo le elezioni regionali.

Invece Renzi accelera, cogliendo al balzo l’occasione di spaccare definitivamente le minoranze e imbarcare un’altra fetta della sinistra Pd. Nella convocazione della riunione infatti è specificato che al termine della direzione «sono previste votazioni». Un voto gli darebbe così il mandato di portare a casa definitivamente l’Italicum, e «senza cambiare una virgola», come da settimane ripetono i renziani del giro più stretto. La mossa è studiata. Ettore Rosato, vicecapogruppo alla camera, annuncia che oggi, alla riunione della capigruppo, il Pd «proporrà un’accelerazione sulla legge elettorale. Non decide il Pd ma la capigruppo», e aggiunge con nonchalance che «però non ci sono motivi per non esaminare la legge elettorale, non ci sono provvedimenti in scadenza, i tempi ci sono». Una decisione che può portare a una reazione a catena dentro il gruppo del Pd, almeno nella minoranza che a legge non modificata giura di non votare l’Italicum. Peraltro l’annuncio arriva da un franceschiniano molto vicino a Renzi, e non dal capogruppo Roberto Speranza, che da esponente dell’ala moderata del bersanismo ha chiesto le modifiche alla legge elettorale. E invece da presidente dei deputati porterà la richiesta ’renziana’ alla capigruppo.

Ma il tentativo di rompere il fronte delle minoranze è scoperto. La strada sembra segnata: «In direzione i rapporti di forza sono sul filo del rasoio», ironizza Gianni Cuperlo. I numeri della direzione sono a prova di bomba, per Renzi. Quanto alle minoranze, una parte non voterà il dispositivo, rivendicando un margine di autonomia sulla materia costituzionale assicurato dagli statuti dei gruppi parlamentari; un’altra voterà sì e sancirà la spaccatura dei bersaniani e l’ingresso dell’ala dialogante nella maggioranza del Pd. Nei fatti, la ripetizione tardiva della mossa fatta dai giovani turchi un anno fa, al momento dell’elezione di Matteo Orfini alla presidenza del Pd.

L’ala intransigente, uscita malconcia dall’assemblea di sabato scorso, si prepara a una battaglia che potrebbe essere la prima di una nuova fase. Ieri in Transatlantico D’Attorre spiegava che «sui tempi non abbiamo nulla da obiettare, il nostro obiettivo non è dilatorio. Vuol dire che la proposta di un gruppo di lavoro sulle riforme e sull’Italicum lo ribadiremo in direzione. Torniamo al metodo Mattarella, ripartiamo dal Pd per trovare l’accordo con tutti quelli che ci stanno. E se ci sarà una disponibilità, la minoranza garantisce di non toccare più i testi nei successivi passaggi». Anche Pippo Civati spera «che Renzi venga in direzione con la proposta di una serie di modifiche all’Italicum. Se non lo farà, ci troveremo a votare quella legge nel pieno della campagna elettorale: poi non venga a dirci che vogliamo le divisioni, così è lui a creare un clima di tensione».

Il no di Renzi sembra però già scritto. È una sfida ai suoi, per costringere i più critici a ’pesarsi’. E mettere spalle al muro l’ex segretario Bersani: il ’padre’ nobile del dissenso dovrà abbandonare quella autoinflitta «lealtà alla ditta» ripetuta come un’ossessione e risolta in un regalone alla propaganda renziana. Per D’Attorre comunque «la materia istituzionale non si risolve con un voto in direzione, su questi temi è sempre stato riconosciuto un margine di autonomia ai gruppi parlamentari. Mi hanno fatto notare che nello statuto del primo gruppo dell’Ulivo del 2006 la materia costituzionale era apertamente indicata come quelle per cui c’era una autonomia dei gruppi». Così è anche negli statuti parlamentari.

Ma la prova di forza del premier non è solo interna: è anche rivolta all’Ncd e a Forza Italia (alla camera però non servirebbero i voti dei dissidenti). Per dimostrare di essere l’uomo forte di un quadro politico debole, tormentato e irredimibilmente ricattato dalla minaccia di voto anticipato.