Editoriale

Italicum per comandare, non per decidere

Sull’Italicum si è già detto molto, ma sulle conseguenze politiche della nuova legge elettorale il dibattito si è appena aperto. Il professor D’Alimonte, richiamandosi al modello del politologo americano Gary […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 9 maggio 2015

Sull’Italicum si è già detto molto, ma sulle conseguenze politiche della nuova legge elettorale il dibattito si è appena aperto. Il professor D’Alimonte, richiamandosi al modello del politologo americano Gary W. Cox scommette sulla dinamica bipolare e bipartitica che prima o poi si produrrà, attraverso gli effetti di apprendimento e di coordinamento strategico indotti dalle nuove regole del gioco. Non è questa la sede per discutere la fondatezza di questa previsione e se la formula di Cox sia replicabile ad una dimensione macro come quella di un’intera e unica arena competitiva nazionale, o se essa piuttosto non si riveli valida solo a livello di singoli collegi (nel suggerire, appunto, agli attori politici, come meglio «far contare» i voti): appare evidente, comunque, il rischio di determinismo che vizia questo ragionamento. Gli «effetti» bipartitici dell’Italicum, se mai potranno agire, saranno ben largamente compensati da altre «variabili» storiche ed empiriche: prime fra tutte, l’italica propensione al trasformismo, combinata con la totale assenza di partiti in grado di svolgere le classiche funzioni che essi hanno svolto nella storia delle democrazie parlamentari.

E così al momento appare quanto meno altrettanto fondata una previsione di segno opposto: l’incentivo a creare un sistema politico di impronta neo-centrista, con un partito-pivot o un partito-tenda sotto le cui insegne si accalcheranno tutte le più svariate aggregazioni del potere notabilare (con le prevedibili conseguenze sulla qualità della tanto agognata «governabilità»). Da questo punto di vista, potremo assistere ad un inconsueto «esperimento» politologico sul campo: vedremo quale previsione si rivelerà più fondata. Peccato che tutto questo non accadrà in un laboratorio di ingegneria elettorale, ma sulla pelle di una democrazia stremata e sempre più fragile.
I commenti sulla vicenda dell’Italicum sembrano poi divisi da un dilemma: si è trattato di un’estrema prova di forza di Renzi o, al contrario, di una sua prova di debolezza? Una vittoria sulle macerie, o un leader che asfalta gli avversari e spiana i ruderi di un vecchio sistema politico? Queste domande si legano ad un altro quesito: come mai le linee di resistenza, interne ed esterne al PD, si sono rivelate così fragili?

La risposta che ci sembra più credibile è la seguente: Renzi ha scatenato tutta la sua volontà di potenza, ma con ciò stesso ha palesato tutti i limiti della sua cultura politica. Un leader capace (oggi) di esprimere la sua capacità di dominio, ma incapace di esercitare una vera egemonia.
Si immagini uno scenario che era nell’ordine delle cose possibili: se ancora si poteva giustificare la prima versione dell’Italicum appellandosi alla necessità di un compromesso per garantire una riforma condivisa con una parte dell’opposizione, perché Renzi non ha cambiato le carte in tavola quando il patto del Nazareno (almeno ufficialmente) era caduto? La necessità di tempi brevi? suvvia, sarebbero bastati tre mesi, per riprendere (senza impaludarsi nelle micidiali astruserie dell’Italicum) uno dei possibili modelli di sistema elettorale, lineari e sperimentati, già pronti per l’uso, per così dire; e se proprio si voleva rendere omaggio al nefasto principio che regge tutta la costruzione (sapere chi vince «la sera delle elezioni»), si potevano anche concepire dei semplici correttivi. Nulla di tutto questo: Renzi e la maggioranza del Pd si sono lasciati affascinare dall’idea del premio alla singola lista, abbagliati dai sondaggi e ignari dei possibili effetti imprevisti che questo tipo di ballottaggio può produrre (ed infatti, il M5S e Salvini già si fregano le mani: ma Parma e Livorno, non hanno insegnato nulla al Pd?)

Una grande miopia politica, dunque: non la manifestazione di una lungimiranza da statisti. Un limite di cultura politica che, per altro verso, si è manifestato anche nella condotta delle minoranze del Pd. Al di là degli errori tattici e delle divisioni, è stato un errore puntare sulla questione delle preferenze e sulla contrapposizione tra eletti e «nominati». Non si può cedere alla vulgata populista: i partiti hanno il diritto e la responsabilità di scegliere i volti di chi li rappresenta di fronte agli elettori; ma spetta, eventualmente, alle loro procedure interne (e non solo e non tanto alle primarie), alla discussione e alla partecipazione democratica di dirigenti e iscritti, la selezione del personale politico chiamato a concorrere nelle elezioni. E agli elettori spetta il diritto di conoscere e il potere di valutare.

Si possono peraltro comprendere, ma non condividere, le ragioni che hanno spinto le minoranze del Pd a scegliere questo terreno e che, più in generale, fanno ritenere a molti il ritorno al voto di preferenza come il male minore. Se i partiti si trasformano in macchine personalizzate di consenso, se non hanno più una vera vita democratica interna; se gli organismi dirigenti sono oramai solo dei meri organi di ratifica, e non delle sedi deliberative; se le primarie si sono trasformate in uno strumento scriteriato e sregolato; se tutto è questo è vero, si può allora essere indotti a ritenere che l’unico elemento in grado di garantire una competizione equa sia quello delle preferenze e che lo si possa considerare come l’unico terreno su cui è possibile spostare gli equilibri. Ed è comprensibile che siano guardati con sospetto tutti quei sistemi elettorali che affidano la scelta delle candidature «sicure» ai poteri esclusivi di chi controlla il partito. Ma è una soluzione debole e di ripiego: per questa via, i partiti saranno sempre più, e solo, un assemblaggio di comitati elettorali.

Il vero punto di attacco all’Italicum sarebbe stato (e dovrà essere in futuro) quello dell’idea di democrazia che esso sottende e propugna: un’idea distorta e riduttiva di democrazia, intesa come mero atto di autorizzazione al comando; un’idea plebiscitaria dell’investitura elettorale; e una visione della democrazia priva di ogni elemento e luogo di mediazione e di rappresentanza. Ma è un’idea, al fondo, viziata da una sorta di illusione decisionistica e da una lettura della crisi della democrazia come mero inceppamento dei poteri di comando. Anche nel dibattito parlamentare è risuonata un’orribile espressione: una «democrazia decidente». Certo, la democrazia rischia di perdere la sua legittimità se non produce decisioni… già, ma che tipo di decisioni?

Ciò che qualifica una democrazia come tale, è proprio la qualità e la natura delle procedure con cui si giunge ad una decisione. E chi appena conosca la realtà del cosiddetto policy-making sa bene che ciò che blocca le decisioni, in tanti casi, non sono certo le istituzioni che definiscono la titolarità dei poteri, ma qualcosa di tutt’altra natura, empiricamente impalpabile, ma ben concreto e oggettivo: il consenso, la legittimità democratica, la capacità di proporre soluzioni adeguatamente e pubblicamente discusse, comprese, percepite come giuste, socialmente condivise, ma accettate anche da chi in esse magari non si riconosce, ma sente come legittimo, inclusivo e rappresentativo, il processo attraverso cui ad una conclusione si è giunti. Senza tutto questo, non c’è Italicum che tenga: si potrà comandare, ma senza veramente decidere alcunché.

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