Gonne bianche, camicette, tailleur, dettagli eleganti o più spesso bizzarri di guardaroba. Dalla mattina l’aula di Montecitorio è punteggiata dal bianco delle donne che chiedono un riequilibrio di genere nella legge elettorale. Lo portano anche le insospettabili, dalla sciarpa lunghissima della cattolicissima Binetti alle mise più audaci delle giovani, alle serene camicie bianche di tante. E qualche uomo, come il socialista Marco Di Lello maglietta bianca sottogiacca. A sfottò, il leghista Buonanno ha indossato una giacca da cameriere. Stavolta non è colore, il bianco è il simbolo della battaglia. Finisce male, però. La sindrome dei 101 colpisce ancora il Pd, e stavolta non affossa un presidente della Repubblica – Prodi – che, forse, avrebbe rimandato presto gli italiani a votare; stavolta salva l’accordo fra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale. Ma il senso del voto segreto è un po’ lo stesso: l’Italicum è la polizza a vita della legislatura, valido com’è solo per la camera in attesa di una futura – ma ancora di là da venire – riforma del senato.

In aula va in scena, forse per la prima volta dall’inizio di una legislatura larghintesista, uno scontro vero. Ma trasversale. I gruppi lasciano libertà di voto, ma a parole. Di fatto alla fine mancano un centinaio di voti, distribuiti fra i maggior partiti della maggioranza di governo. Una sessantina sono sul groppone del solo Pd, dove in serata esplodono le polemiche. «Il voto di molti colleghi è contrario alla norma prevista dallo Statuto del Pd», attacca Dario Ginefra.

I tre emendamenti bocciati sui quali il governo si rimette al parere dell’aula, firmati da un fronte trasversale (ma non dalla Lega, che nel proprio gruppo non ha una donna, e non dai 5 stelle, contrari al riequilibrio per legge e convinti di aver realizzato la liberazione delle donne, agli ordini di Grillo e Casaleggio) chiedevano in tre modi diversi il riequilibrio di genere. Il primo prevede l’alternanza uomo-donna, e viene bocciato con 335 no e 227. Il secondo prevede metà donne fra i capilista, finisce 344 a 214. Il terzo, sul riequilibrio dei capilista 60/40, a sua volta già frutto di una mediazione fra donne del Pd e di Forza Italia, finisce 298 voti contrari e 253 a favore.

Dalla mattina si capisce che le cose si mettono male. Nel week end il portavoce della segreteria del Pd Lorenzo Guerini ha provato a convincere Denis Verdini, plenipotenziario berlusconiano. Per il Pd la posta è pesante. Il suo no è la negazione di un principio statutario, perfino di un cardine dell’identità del Partito democratico. Ma Silvio Berlusconi se ne infischia, Forza italia vuole le mani libere sulla scelta dei candidati ed ha concesso al massimo di rimandare il voto a dopo l’8 marzo. In mattinata al comitato dei 9, il relatore Sisto, sventola dei fogli con una sentenza della Consulta che – sostiene – dimostrano l’incostituzionalità del riequilibrio. Non è vero, anzi l’art.51 della Carta impone il riequilibrio tramite «appositi provvedimenti», ma tanto basta a far capire che aria tira a Palazzo Grazioli. Ulteriore segnale inequivocabile è un altro dettaglio di colore: Santanchè, fedelissima di Silvio, sfoggia un eloquente tailleur rosso cardinale. Maria Grazia Calabria, anche lei della stretta cerchia, esibisce un vestito nero.

Nel comitato non si trova la quadra. In aula le votazioni si interrompono due volte. Alla fine, alle sei si ricomincia, e parte il dibattito accorato delle donne in bianco. Per il Pd per prima parla Roberta Agostini. Il suo gruppo non dà indicazioni, lei ci prova: «Non è un voto per interesse di parte, è inammissibile che si voti un nuovo testo sulla legge elettorale che non accolga nelle sue norme il ruolo pubblico delle donne». La passione diventa un ping pong, si accendono i microfoni delle donne che si iscrivono a parlare, le deputate di Sel attaccano, «la diretta conseguenza sarà che il parlamento con più donne riduce il numero delle elette», spiega Titti Di Salvo. Quando è il turno delle pasionarie di Forza Italia, l’ex ministra Stefania Prestigiacomo esprime il rammarico per essere costretta «a votare in dissenso». Il suo capogruppo Renato Brunetta interviene subito dopo per assicurare che c’è la libertà di voto, ma l’equivoco è un lapsus, di fatto l’ordine di scuderia, a casa Berlusconi, è il no.

A casa Pd l’imbarazzo è nei volti. Intervengono anche Gianni Cuperlo, il lettiano Marco Meloni, e poi anche molti uomini della sinistra già bersaniana. Il sospetto dei renziani è che sulle donne vogliano far saltare l’accordo sull’Italicum, con le conseguenze del caso sul presidente Renzi. Il voto segreto fa il resto: una sessantina di democratici votano no, il Pd si vota contro e salva l’accordo fra Renzi e Berlusconi. Renzi corre ai ripari e twitta: «Il Pd rispetta il voto del parlamento sulla parità di genere, ma anche l’impegno della direzione Pd: nelle liste l’alternanza sarà assicurata». Ma un tweet non basta. Alla fine del terzo no, le deputate democratiche lasciano l’aula e chiedono al capogruppo Speranza una riunione subito. Le ministre Marianna Madia e Maria Elena Boschi, dai banchi del governo, scrutano la scena. Vestite una di nero e una di verde.