Il patto d’acciaio Renzi-Berlusconi inizia subito a ballare. Oggi alle 13 la conferenza dei capigruppo di Montecitorio deciderà quando mettere in calendario la riforma, che procederà poi con tempi contingentati: 26 ore. Ma i principali contraenti dello storico accordo, i ragazzi di Silvio, non devono sentirsi molto sicuri se il capogruppo Brunetta sente il bisogno di mettere le mani avanti: «Speriamo che la legge elettorale si incardini, sia approvata la settimana prossima alla Camera e poi in un paio di settimane al Senato. Altrimenti ne vedremo delle belle».

La diffidenza dei forzisti si spiega con il colpo di freno che proprio Matteo il Veloce ha impresso ieri. Essendo decaduto il decreto legge salva Roma si apriva la possibilità di varare la legge elettorale nei prossimi tre giorni, giusto giusto il termine che aveva annunciato a suo tempo il baby premier. Brunetta ha avanzato la proposta in conferenza dei capigruppo. Il pd Giachetti, vicepresidente dell’assemblea, lo ha appoggiato. Per il resto un coro di no, tra i quali il più fragoroso, e per certi versi sorprendente, è stato quello della ministra per le Riforme Maria Elena Boschi, la più renziana di tutti. Brunetta ha preso male la sorpresa. Di qui l’ultimatum sui tempi della riforma.

Le rassicurazioni sono arrivate a stretto giro. Prima il capogruppo Speranza: «Domani proporremo la calendarizzazione subito». Subito dopo il portavoce della segreteria Guerini, come se parlasse Renzi in persona: «Siamo pronti a iniziare già la settimana prossima il dibattito in aula».

L’impegno non basta a tranquillizzare lo stato maggiore berlusconiano. Lo screzio di ieri è solo la classica punta emergente dell’iceberg. Se Renzi, tramite ministra Boschi, ha frenato ieri è perché ancora non sa come sciogliere il nodo dei punti di dissenso tra le sue due maggioranze, quella politica con Alfano e quella riformista con Berlusconi. Sul rispetto alla lettera dell’intesa raggiunta, infatti, re Silvio non transige.

Accetterebbe probabilmente alcune limature, tanto per salvaguardare almeno le apparenze di una certa autonomia del Parlamento. Non ingoierebbe invece modifiche sostanziali, e sono proprio di questa natura quella che chiedono non solo l’Ncd ma anche gli altri partiti centristi della maggioranza, e la stessa minoranza del Pd (che peraltro nelle aule parlamentari è maggioranza).

Il punto più dolente e meno facilmente risolvibile è la richiesta pressante dei centristi di accompagnare il varo della legge con l’approvazione dell’emendamento Lauricella, che vincola l’entrata in vigore della legge alla conclusione della riforma istituzionale, in soldoni all’eliminazione del Senato. Roberto Formigoni lo dice senza perifrasi: «Per la legge elettorale ci vorrà un anno, perché ci metteremo dentro quella clausola».
I renziani hanno fatto filtrare ieri la voce di un accordo sulla derubricazione dell’emendamento a semplice ordine del giorno. Carta straccia. Il classico ballon d’essai, lanciato per saggiare le reazioni dei centristi. Che sono state discrete e diplomatiche ma tassativamente negative. «Non abbiamo strillato – spiega Formigoni – perché la trattativa è appena all’inizio, ma è ovvio che trasformare l’emendamento in odg sarebbe una presa in giro, proprio come varare la legge senza abolire prima il Senato vorrebbe dire prendere in giro gli italiani».

L’ex governatore lombardo si sente sicuro. Perché, spiega, «ala fine se l’emendamento viene votato c’è poco da discutere». Chi dovrebbe votarlo, oltre ai centristi? Ovvio, la minoranza del Pd. Non è detto che vada davvero così, però non è neppure escluso. Un bersaniano di ferro come D’Attorre lo ammette apertamente: «L’emendamento Lauricella fa parte integrante dell’accordo che ha fatto nascere il governo Renzi». Grazie alla frenata di ieri, adesso Renzi ha dieci giorni per sciogliere il nodo. O per rinunciare alla doppia maggioranza.