Riparte oggi pomeriggio in prima commissione alla camera il percorso della nuova legge elettorale. È la terza lettura, dopo la prima alla camera un anno fa e la seconda al senato a gennaio che ha parzialmente riscritto l’Italicum. Il presidente del Consiglio vuole che questa sia la lettura definitiva. Davanti alla direzione del suo partito ha già illustrato il calendario: fine del lavoro in commissione entro aprile, approvazione della legge entro maggio. Ma nel Programma nazionale delle riforme che compone il Def (discusso ieri) il governo si è tenuto un margine di sicurezza, prevedendo la conclusione entro luglio. Ci sarebbe il tempo per quelle correzioni che chiedono le opposizioni e – con appena qualche possibilità in più – le minoranze del Pd. Si potrebbe far tornare la legge velocemente al senato per l’ultimo via libera, se Renzi si fidasse delle assicurazioni dei suoi, che a palazzo Madama hanno numeri decisivi. Ma Renzi non si fida e soprattutto non intende concedere nulla. E poi gran parte della minoranza bersaniana presenterà oggi un documento che già in premessa chiarisce di non voler far male. «Bisogna migliorare il testo e tenere unito il Pd», scrivono i bersaniani «dialoganti» come il coordinatore di Area Riformista Stumpo e il presidente della commissione lavoro Damiano. Avviandosi a fare il bis del Jobs act, quando furono loro a fidarsi di Renzi e a lasciar passare la legge delega. Per poi, davanti ai decreti delegati, dichiararsi pentiti.

Il documento potrebbe contenere l’esplicita dichiarazione di restare fedeli alla linea della maggioranza. E dovrebbe riprendere il pacato intervento che il capogruppo dei deputati Speranza ha tenuto in direzione. Le firme servono a contare quanti sono quelli che chiedono al premier di fermarsi, una cinquantina. Sono quei deputati che davanti alle ripetute porte in faccia di Renzi e del vice Guerini – «non cambiano nulla», ha confermato ieri – continuano a rispondere che «non si può chiudere il confronto». Non è un elenco sul quale si può fare troppo conto, visto che alla prova del voto le minoranza Pd si sono sempre divise tra chi ha tradotto il dissenso in un voto contrario, chi si è astenuto o è uscito dall’aula, chi si è malvolentieri adeguato alla maggioranza. Del resto alla camera i numeri non sono un problema per il premier segretario. O meglio, lo sarebbero in prima commissione, dove i deputati che si sono dichiarati contrari all’Italicum sono un’esigua maggioranza nel gruppo Pd (12 su 23) e invece una solida maggioranza nel complesso della commissione (30 su 50). Ma non daranno troppo fastidio al governo: prima Bersani poi molti dei suoi hanno detto che se la maggioranza del gruppo lo chiede sono pronti a farsi sostituire da qualcuno in linea con Renzi. Dicono di voler rinviare il confronto in aula, quando veramente sarà decisivo. Un esempio di follia tattica, dal momento che in aula i numeri dei bersaniani non possono incidere come in commissione. Eppure un esempio già messo in pratica nella discussione sulla riforma costituzionale (allora i bersaniani ritirano gli emendamenti).
Proprio la riforma del bicameralismo – che dopo i furori di febbraio è tenuta in ghiacciaia al senato – potrebbe essere il terreno di scambio di Renzi con i bersaniani «dialoganti». Per incassare un via libera spensierato dell’Italicum e non umiliare i suoi quasi avversari interni, il premier potrebbe fare generiche promesse di modificare qualcosa nel disegno di legge costituzionale. Ben sapendo, a palazzo Chigi, che dopo due letture conformi, nella riforma potranno cambiare solo i dettagli.