Quarantotto ore dopo il terremoto delle elezioni regionali, la possibilità che il senato non riesca ad approvare entro la fine dell’anno la nuova legge elettorale, al contrario di quanto assicurato per settimane da Renzi, è già una certezza. Un po’ di buonsenso basta a far ammettere al sottosegretario Pizzetti quello che era evidente da giorni: «È difficile che chiuderemo entro Natale, il calendario è complicato e non possiamo certo convocare i senatori tra Natale e Capodanno per votare la legge elettorale». Nelle prossime tre settimane di lavoro pieno, infatti, per palazzo Madama dovranno passare altri due provvedimenti fondamentali e prioritari per il governo: jobs act e legge di stabilità. Scadenze non ignote al presidente del Consiglio quando ha fissato i suoi ultimatum, ma a Renzi interessa di più ribadire la supremazia sui lavori del parlamento che riuscire a mantenere gli impegni. È successo lo stesso anche con la riforma Costituzionale, a maggio scorso, sempre al senato, e si avvia a succedere di nuovo alla camera (lì il calendario renziano dice gennaio data limite della riforma).

Ma più che i dietrofront di Berlusconi, che ancora non si vedono – anzi al netto delle proposte fantasiose l’ex Cavaliere ieri ha fatto capire di essere pronto ad accettare anche il premio di maggioranza dato alla lista – e in attesa di vedere le mosse di Fitto e degli altri dissidenti, l’Italicum riveduto e corretto ha nella ali il piombo di tutti i suoi difetti. Uno su tutti, che il governo ha scoperto nelle recenti tornate di audizioni in commissione ma che avrebbe potuto conoscere se avesse dedicato un po’ di attenzione alle critiche piovute già al tempo del primo passaggio alla camera, o se anche avesse letto bene la sentenza della Corte Costituzionale che ha abbattuto il Porcellum. Un sistema monco, applicabile solo a una delle due camere, non può essere proposto fino a quando il bicameralismo italiano resta paritario, con due camere che danno entrambe la fiducia al governo. Votare con il proporzionale senza premio residuato dalla sentenza della Consulta (il cosiddetto Consultellum) per il senato e con l’Italicum alla camera è altrettanto impossibile. E non perché non si possano avere due leggi diverse per le due camere, non è questa l’obiezione alla quale la ministra Boschi deve rispondere, non conta che il sottosegretario Pizzetti ricordi che «è già successo». Ma perché nell’Italicum il premio di maggioranza (assegnato alla prima minoranza) e lo sbarramento sono due distorsioni forti di un sistema che si presenta come proporzionale e dunque sono ragionevoli – lo dice la Consulta e lo hanno detto in senato gli ex giudici del Porcellum – solo se il sistema nel suo complesso è potenzialmente in grado di assicurare la governabilità. Se invece per definizione camera e senato non garantiscono la stessa, solida, maggioranza, l’accoppiata Italicum più Consultellum (ammesso che si tratti di una legge effettivamente applicabile) non è costituzionale.

È questo difetto con i suoi difficili rimedi – tipo rimandare l’entrata in vigore di una legge elettorale tanto attesa o estendere al senato l’Italicum con il rischio di avere ballottaggi opposti e premi assegnati nazionalmente anche al senato – a ritardare la riforma elettorale, più di tutte le alchimie del Nazareno. Sempre Pizzetti dice che questa situazione «non è un dramma», ma a ben vedere non lo è solo per chi fa il tifo per il naufragio dell’Italicum.
Nel frattempo le cose vanno solo un po’ meglio per il governo in prima commissione alla camera, dove non è ancora cominciata la conta sugli emendamenti della minoranza Pd che correggono in punti cruciali la riforma costituzionale Renzi-Boschi. Gli emendamenti al testo arrivato dal senato sono circa 1.200, la metà dei quali di grillini e Sel, anticipo di un possibile ostruzionismo che alla camera dove non si può ripetere la tecnica del «canguro» potrà essere più efficace rispetto al senato. E vanno assai male le cose nella commissione giustizia al senato, luogo deputato a traghettare un pezzo delle «riforme» promesse dal governo, ancora per problemi interni alla maggioranza. Gli alfaniani disertano le riunioni perché ancora insolentiti dall’asse Pd-5 Stelle sulla responsabilità dei giudici. E perché non vogliono far passare il divorzio breve. Ieri la seduta di commissione è saltata.