Si apre il capitolo della legge elettorale al senato e nel giorno in cui la presidente della prima commissione, Anna Finocchiaro, celebra il rito della relazione, il presidente del Consiglio detta già i tempi al parlamento: «La legge sarà approvata dal senato entro l’anno». Finocchiaro, d’altra parte, nel presentare il testo approvato alla camera – e anche allora fu una corsa, tutta strappi al regolamento e forzature – indica guarda un po’ tre punti deboli da correggere, e mezzo. Sono precisi precisi, non uno in meno non uno in più, quelli concordati al tavolo del Nazareno tra Renzi e Berlusconi: «Innalzare la soglia oltre la quale si ha diritto al premio di maggioranza» (l’Italicum prima versione prevedeva il 37%, adesso si vuole il 40% e sotto ballottaggio); «limitare alle sole liste l’assegnazione del premio» (era previsto per la coalizione vincitrice); «ridurre sensibilmente le soglie per l’accesso al riparto dei seggi» (dalle folli vette del testo che arriva dalla camera a un 3% generalizzato, buono per Alfano e per tutti). La mezza proposta accennata da Finocchiaro è sulle preferenze: l’idea è di introdurle solo per il partito che prende il premio, anche questa l’hanno avuta al Nazareno.

Per la verità sul premio alle liste e sulla ritrovata sensibilità del Pd per i partiti piccoli (purché marginali) Berlusconi non è ancora del tutto convinto (ha solo da perderci) e uscendo dall’ottavo incontro con Renzi ha alzato un sopracciglio. Non troppo minaccioso, però, visto che ha subito aggiunto che Forza Italia non ostacolerà comunque la corsa della legge. E in effetti più di ogni altra cosa il proprietario di Mediaset con i sondaggi a picco ha interesse a restare legato al patto e possibilmente a rinviare le urne. E così il capogruppo dei berlusconiani Romani ieri ha invitato alla calma: «La discussione non si deve comprimere», messaggio rivolto ai commissari della Affari Costituzionali ma da girare a chi governa i tempi del parlamento, cioè Renzi. Una situazione già vissuta proprio dalla stessa commissione e dalla stessa presidente, quando da relatrice della riforma costituzionale andava a concordare a palazzo Chigi calendario ed emendamenti.
Il vero punto debole del vecchio Italicum, però, è che si tratta di un sistema elettorale valido solo per la camera dei deputati. Un «baco» inserito alla camera dalla minoranza Pd che così si è tutelata da eventuali tentazioni renziane di voto anticipato: prima occorrerebbe completare la riforma costituzionale che non prevede un senato elettivo. Altrimenti?

Lo chiede adesso Forza Italia, che teme lo scioglimento anticipato, e dunque un po’ per buon senso, un molto per convenienza, vorrebbe legare il cammino della legge elettorale a quello della riforma costituzionale (che dovrebbe essere approvata dalla camera, secondo il calendario renziano, a gennaio). La risposta della presidente Finocchiaro è sorprendente. Lo è perché proprio lei cerca di motivare le modifiche alla legge decise dal Nazareno come necessaria risposta alla famosa sentenza della Corte costituzionale che ha abbattuto il Porcellum (sentenza che essendo di gennaio era ben conosciuta anche a marzo, quando invece fu votato il testo così com’è). Ebbene, ha risposto Finocchiaro a Romani, non c’è problema «la legge elettorale del senato c’è» ed è quella venuta fuori dalla sentenza della Consulta: proporzionale, alto sbarramento, una preferenza, niente premi.

Come questo possa essere rispettoso della Corte Costituzionale è un mistero. Nella famosa sentenza di gennaio c’è infatti scritto che sbarramenti e premi, cioè le distorsioni della rappresentatività in funzione della «governabilità», si giustificano solo in un sistema coerente in grado di assicurare effettivamente una maggioranza. Due leggi diverse per le due camere politiche, una con il premio e una senza, avrebbero l’effetto opposto, un caos che andrebbero a sbattere contro il richiamo alla «ragionevolezza» ribadito dalla Corte. Per conservare il Consultellum e usarlo come arma di ricatto per elezioni anticipate c’è un solo modo razionale: tenerlo anche per la camera, rinunciare all’Italicum.