A partire dai secoli intorno al Mille, l’Europa registrò un progressivo mutamento che condusse al ridursi dell’importanza dell’agricoltura come fattore trainante dell’economia e all’affermarsi di attività diverse: il commercio, l’artigianato su scala manifatturiera, gli strumenti di cambio e di credito.
Le città erano naturalmente il luogo privilegiato nel quale ebbe luogo questo mutamento, del quale essa era in parte causa e al tempo stesso effetto; e altrettanto naturalmente furono quelle poste lungo le grandi vie di comunicazione terrestre o fluviale a crescere più in fretta. In particolare, si svilupparono quei centri affacciati sul mare che godevano di diritto o di fatto di autonomia politica, che potevano fungere da polo di attrazione per la stessa aristocrazia dell’entroterra in grado di urbanizzarsi e di recare in città capitali utilizzabili, che infine si giovarono del momento propizio – l’esaurirsi del fenomeno della guerra corsara musulmana, massiccio fra VIII e X secolo, e il movimento «crociato» – per espandersi sul mare e proporsi ai centri dell’entroterra come collettori delle merci d’importazione e distributori di quelle esportate. Intorno al Mille, alcuni delle città italo-bizantine affacciate sul mare avevano già raggiunto livelli di vita e capacità commerciali assai elevate. Dal principio del IX secolo Amalfi, Napoli e Salerno battevano una moneta propria, che derivava dal tarì arabo, segno che l’Islam, non solo Bisanzio, era la loro area privilegiata di scambio.
Ma fra tutte le città italo-bizantine doveva esser Venezia a spiccare il volo verso un futuro di grande portata, riuscendo nei secoli a intrecciare interessi fondiari e commerciali con attività agricole e finanziarie in un impero marittimo di immensa portata. La sua lunga parabola è stata immortalata in un breve libro scritto nel 1984 dal grande storico Fernand Braudel, oggi ripubblicato (Venezia, il Mulino, 110 pp., euro 11). Sebbene non manchino storie di Venezia più corpose, il ritratto che Braudel ne dà, intrecciando esperienze personali, considerazioni storiografiche e racconto storico resta un piccolo classico, nato a corredo di un libro fotografico, ma che si regge benissimo anche sulle sole parole.
Venezia riuscì a far crescere le sue fortune in un impero sospeso tra Occidente e Oriente. D’altra parte, prima della scoperta dell’America e delle rotte atlantiche, i viaggi di maggior interesse intrapresi dagli europei erano quelli rivolti verso l’Asia profonda. Contestualizzare le conoscenze e le esperienze dei viaggiatori che si movevano lungo queste rotte tra XII e XV secolo nel più ampio quadro dello statuto gnoseologico dell’epoca, significa anzitutto fornire un quadro più ampio del sapere geografico impropriamente definibile come «immaginario»: tenendo presente che non l’esperienza era la via principale attraverso la quale si accedeva alla conoscenza, bensì lo studio delle auctoritates. In realtà, solo a partire dal XIII secolo esse furono confrontate con quanto emergeva dalla viva esperienza di viaggio di missionari, diplomatici e mercanti. Le vicende di queste rotte asiatiche sono narrate con vivacità da Attilio Brilli nel suo Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci (il Mulino, 266 pp., euro 16).
Nel Duecento, la comparsa dei Mongoli aveva rinverdito le illusioni escatologiche sul misterioso popolo cristiano d’oriente che già l’Europa conosceva polarizzate nel mito del Prete Gianni: sovrano cristiano che avrebbe dominato luoghi imprecisati del continente asiatico. Il nuovo papa Innocenzo IV, pur accennando più volte all’opportunità di una crociata contro i tartari, era nei loro confronti orientato piuttosto verso la penetrazione pacifica e i rapporti diplomatici. La notizia che presso i Mongoli avessero grande credito i membri della Chiesa nestoriana, per quanto esagerata in parte dagli ambienti nestoriani stessi, in parte dall’eccessivo ottimismo degli occidentali, aveva un suo nucleo di verità.
Innocenzo IV aveva pensato a due diversi itinerari attraverso i quali raggiungere il mondo tartarico ed entrare in contatto con esso. La «via meridionale» era stata affidata al francescano Lorenzo del Portogallo e poi al domenicano Ascelino da Cremona: egli, partito da Acri, vi fece ritorno attorno al 1247 dopo aver attraversato Mesopotamia e Armenia meridionale fino alla Persia ed essersi arrestato ai limiti della regione turanica. I non brillanti esiti della sua ambasceria furono narrati da uno dei suoi compagni, frate Simone da san Quintino, e la sua narrazione ci è giunta, per brani, nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais. La «via settentrionale» fu invece quella percorsa dal francescano Giovanni da Pian del Carpine. Latore di una lettera del pontefice per il Gran Khan, Giovanni partì da Lione nell’aprile del 1245 per giungere nel febbraio del 1246 a Kiev, da dove s’inoltrò nell’immenso territorio controllato dai tartari. La spedizione proseguì fino alla capitale-accampamento di Karakorum, dove Giovanni arrivò alla fine di luglio in tempo per assistere alla proclamazione del nuovo Gran Khan, Ogödäi, cui presentò la missiva pontificia e dal quale ricevette ricchi doni. Verso la metà del novembre cominciò il viaggio di ritorno, conclusosi quasi un anno più tardi.
Il buon esito del viaggio di Giovanni incoraggiò altri analoghi tentativi: quali quello del francescano Guglielmo di Rubruck, che viaggiò tra 1253 e 1256 con un confratello italiano, Bartolomeo da Cremona. Altre ragioni mossero i due mercanti veneziani Nicolò e Matteo Polo, ch’erano comunque uomini di fiducia del legato pontificio in Terrasanta, cardinal Tedaldo Visconti, che come papa Gregorio X li incoraggiò, nell’autunno del 1271, a intraprendere il loro grande viaggio in compagnia del figlio di Niccolò, il celebre Marco. Le vicende del viaggio e della permanenza di Marco in Asia, presso il Gran Khan Kubilai, aprirono il mondo europeo alla conoscenza della Cina, del sud-est asiatico e del Cipangu, il Giappone. Numerosi furono poi i viaggi della prima metà del Trecento, come quello del francescano Odorico da Pordenone il quale nel 1330 dettò le sue memorie a un confratello e il cui testo latino, la Relatio o Descriptio orientalium partium, ebbe un successo straordinario.
Comunque, dopo quel periodo la via verso la Cina s’interruppe: la caduta della dinastia sino-mongola e l’avvento al trono dei cinesi Ming congelarono per oltre due secoli le speranze relative alla penetrazione nell’Asia estrema. Non tuttavia le rotte dell’Oceano indiano e dell’India, alle quali è dedicato un bel libro di Anna Unali. Seguendo i monsoni. Viaggiatori e mercanti sulle rotte dell’Oceano indiano fra il IX e il XVI secolo (L’Harmattan Italia, 310 pp, 34 euro) si apre con le testimonianze dei viaggiatori arabi e dei primi europei (ovviamente anche dello stesso Marco Polo), ma prosegue il discorso fino all’ascesa dei portoghesi nel Cinquecento e alle reazioni che essa suscitava fra i mercanti e gli uomini d’affari italiani, che sino ad allora erano stati protagonisti del commercio a Oriente.
Tuttavia gli italiani non uscirono di scena; i secoli a cavallo tra medioevo ed età moderna videro il sorgere della potenza fiorentina, che fino a quel momento non aveva dato sui mari gli stessi esiti di Genova, Pisa o Venezia, ma che con l’avvento dei Medici inaugurò una nuova politica marittima, favorita dalla cultura umanistica e dal suo rinnovato interesse per le esplorazioni e la cartografia. Come testimonia per esempio l’inserimento da parte dell’umanista Poggio Bracciolini nel IV libro del suo De varietate fortunae della narrazione dei viaggi del chioggiotto Nicolò de’ Conti in India, ricordato tanto da Brilli quanto da Unali. Cartografia umanistica che avrebbe dato un contributo importante anche alle esplorazioni delle rotte atlantiche e all’idea di arrivare all’Oriente cinese e giapponese attraverso l’Occidente, come di lì a poco avrebbe sognato Cristoforo Colombo.