In una delle scene centrali di Sabrina, il capolavoro di Billy Wilder, si vede Audrey Hepburn presa in primo piano di profilo. Sullo sfondo si riconosce una famosa scultura di Marino Marini, il Cavaliere. Come sottolinea Raffaele Bedarida nel bel saggio di catalogo (Electa) alla mostra New York New York (Milano, Gallerie d’Italia e Museo del 900, sino al 17 settembre), è un’inquadratura su cui Wilder torna più volte: «per un effetto ottico chiaramente studiato, la testa tesa del cavallo di Marino sullo sfondo sembra puntata come un’arma contro il collo di Sabrina. L’immagine segna lo status di vulnerabilità sia sociale che sessuale di Sabrina».
Vicenda del film a parte, quella foto documenta del successo clamoroso che lo scultore pistoiese aveva avuto nel collezionismo americano e di riflesso ci racconta anche quale tipo di ricezione dall’altra parte dell’Oceano si avesse avuto dell’arte del Novecento italiano: nel paese che aveva demolito la figurazione e che stava vivendo la stagione tumultuosa dell’Action Painting, si cercava la toscanità e quella solidità mediterranea di cui Marino era certamente un grande interprete.
Sabrina è del 1954; arrivava cioè cinque anni dopo la grande mostra del MoMA dedicata all’arte italiana del ventesimo secolo, curata dal primo storico direttore di quel museo, Alfred Barr, e da James Soby. Una mostra nata in un contesto politico ben chiaro: il 18 aprile 1948 la Dc aveva vinto le elezioni e i Trustees del MoMA avevano dato immediatamente l’ok al progetto del direttore, che già nel maggio di quell’anno era in Italia a reclutare artisti e opere (la vicenda è ricostruita da Davide Colombo in un altro saggio del catalogo). Era un modo per stringere legami culturali che andassero ad aggiungersi a quelli politici garantiti dall’esito elettorale. Per Barr, invece, fu l’occasione di arricchire le collezioni del museo, sino ad allora ferme, per il Novecento italiano, a Modigliani, De Chirico e naturalmente ai futuristi.
Era la prima volta che il MoMA dedicava una mostra alla produzione contemporanea di un paese, e questo smosse ovviamente anche l’interesse dei galleristi. Fu Curt Valentin a esporre per la prima volta Marino nel 1950. Ma fondamentale fu anche il ruolo di Catherine Viviano e naturalmente di Peggy Guggenheim, che difese con grande convinzione e mezzi Tancredi. Sono anni in cui inevitabilmente si infittiscono i viaggi di artisti italiani oltreoceano. Fu la Viviano a chiamare nel 1956 Toti Scialoja, l’artista forse più sensibile (insieme ad Afro) alle nuove frontiere aperte dall’arte americana tra anni quarante e cinquanta. «La pittura americana mi ha insegnato ad essere libero con me stesso come nessuna altra pittura. Libero, crudelmente sincero ed umile con me stesso: non magico, non faustiano, non deprimente», scrive in una bella pagina del suo Giornale di pittura.
Sono anni in cui il contatto con l’America ha una funzione emancipatrice per gli artisti italiani, come sottolinea Francesco Tedeschi. Tuttavia l’entusiasmo espresso da quelle parole di Scialoja non trova riscontri in una reale contaminazione con il radicalismo dell’arte americana di quei decenni. Gli artisti italiani che approdano a New York restano più che altro stregati dall’energia e dalla verticalità delle città, come accade a Lucio Fontana, che arrivò qui nel 1961 e che nel ’62 realizza i suoi Concetti spaziali. New York in rame e in alluminio. Certamente, per lui come per Consagra e Burri (in mostra con uno spettacolare Grande Ferro del ’58 che era stato della collezione di Joseph Pulitzer), l’esperienza americana porta a un’idea di scultura non monumentale, antiretorica, che si appiattisce sul piano.
In realtà la storia tra artisti italiani e New York è una storia segnata da molte disillusioni. «L’America è una divoratrice di uomini; e se non li divora li asciuga», ammette uno sconsolato Corrado Cagli nel 1967. Lo stesso Mario Schifano aveva battuto in ritirata, dopo aver covato tanti entusiasmi: era tornato dal soggiorno a New York, iniziato nel ’63, senza aver venduto un quadro, in rotta con il potente Leo Castelli. Stessa sorte Tano Festa. Erano gli anni magici di Warhol, ma intanto da noi cresceva il sentimento antiamericano e l’Atlantico per gli artisti tornava a farsi largo.
Abbiamo seguito la mostra tra le pagine del catalogo (utile e ricco di contributi), perché il percorso espositivo non riesce a rendere altrettanto la dimensione di questa storia: avendo rinunciato a qualsiasi supporto documentario, la sequenza di opere, che sono frutto di scelte di grande qualità, comunicano un senso di indistinto nel quale il visitatore fa fatica a orizzontarsi. Manca, per fare un esempio, quella sorprendente foto di Sabrina da cui abbiamo preso avvio: una foto, per altro affascinante, che avrebbe restituito efficacemente l’idea di quale fu sostanzialmente il modo con cui dagli Usa si guardava all’arte italiana del Novecento.