In seguito alla minaccia di un possibile attentato talebano al governatorato di Farah, soldati italiani e americani si sono spostati nella provincia centroccidentale afgana che ricade sotto la responsabilità militare italiana del Regional Command West della missione Nato Resolute Support. I solerti Pio (Public Information Offfice), distaccati nei «teatri» dove è impegnato l’esercito italiano, solitamente pronti a informare di questa o quella visita e di quel corso di formazione, stavolta però la notizia non l’hanno trasmessa ai giornalisti del loro elenco.

Resa nota dai media afghani, non c’è nemmeno nel sito della Difesa dove un’immagine di Gentiloni campeggia sull’approvazione della missione di sostegno alla guardia costiera libica. Bisogna dunque affidarsi alle fonti locali e al portavoce del governatore Nasir Mehri secondo cui americani e italiani sono arrivati aerotrasportati giovedi scorso nella capitale di provincia. Quanti sono non è dato sapere. Non è la prima volta che gli italiani sono a Farah da che la missione Isaf- Nato ha chiuso i battenti tramutandosi in Resolute Support, col compito di formare e assistere l’esercito afgano.

Ma se dei bersaglieri dislocati a Farah all’interno di una forza di 200 uomini per lo più italiana qualche mese fa non si è saputo granché – anche allora la notizia era passata inosservata – la differenza è che adesso il quadro è cambiato.

Gli americani hanno fatto sapere che una nuova strategia è allo studio del presidente e del Pentagono: più uomini e più missioni aeree e un nuovo approccio molto combattivo in cui Washington vuole concordare con Kabul più mano libera nelle operazioni speciali. La Difesa americana ha chiesto alla Nato di appoggiare questo nuovo “surge” ma l’Italia ha risposto picche, perlomeno per quel che riguarda l’aumento del nostro contingente che è di circa mille uomini, il secondo per numero dopo quello statunitense. Inoltre, la missione Resolute Support è una “non combat mission” ossia una presenza di mera assistenza tecnica all’esercito afgano che prevede formazione e sostegno ma senza l’uso delle armi.

Prepararsi a resistere a un attacco della guerriglia però è qualcos’altro anche perché l’arrivo dei militari, stando a informazioni locali, riguarda anche l’impiego di velivoli – droni, elicotteri o caccia – in linea con un massiccio impiego dell’aviazione sempre più utilizzata dal nostro più potente alleato.