«Libia, l’Italia s’è desta», titolava con grande ottimismo un giornale, per altro solitamente attendibile e informato. In realtà questa è un’Italia di sonnambuli più che di gente desta. Basta leggere l’Ansa: «274 persone sono state riportate a Tripoli ieri in 2 diverse operazioni della guardia costiera libica (da noi finanziata). Oltre 10mila persone sono state rimpatriate in Libia da gennaio e incarcerate» e secondo le agenzie internazionali e dell’Onu nei centri libici non vengono rispettati i diritti umani, ovvero si sopravvive tra torture e privazioni come nei lager. Ogni volta che un leader italiano incontra un capo libico c’è aria di presa di in giro.

È accaduto anche a Roma nel meeting tra il premier Mario Draghi e Abdul Hamid Dbeibah, alla prima visita ufficiale in Italia da quando ha assunto la carica di primo ministro, a meno di due mesi dalla missione del presidente del consiglio a Tripoli. Si parla di controllare le frontiere e tutelare i migranti ma che cosa dobbiamo constatare? Da settimane da Zuara salpano dozzine di barconi che nessuno ferma prima della partenza: eppure abbiamo la guardia costiera libica, da noi pagata ed equipaggiata, una missione europea Irini davanti alle coste libiche, i droni, i satelliti, i radar, insomma una serie di apparati che dovrebbero aiutare a prevenire partenze clandestine con esiti mortali.

Poi c’è la questione dei campi profughi, diventati dei campi di concentramento. I libici, nelle loro vaneggianti dichiarazioni, dicono di volerli smantellare. Ma prima di tutto dovrebbero cambiare le loro leggi. La Libia non aderisce alle convenzioni internazionali sui rifugiati, da quella di Ginevra alle successive. In poche parole chiunque entri in territorio libico viene considerato un clandestino, quindi privo di diritti e che può essere trattato come si vuole, alla stregua di un criminale.

Nell’incontro, ben oltre ai migranti, si è parlato di rilancio economico. E anche qui c’è aria di presa in giro: la Libia produce gas e petrolio e vorrebbe vendere molto di più. Ma per farlo ci vorrebbe uno Stato che dalla caduta di Gheddafi nel 2011 non si è potuto ancora ricostruire. Il Paese è diviso tra Tripolitania e Cirenaica, la prima sotto protettorato di Erdogan, la seconda comandata dal generale Khalifa Haftar con il sostegno di Russia, Egitto ed Emirati. Per non parlare della vasta area del Fezzan dove le tribù giocano la loro partita autonoma nel Sahel. L’attuale governo di unità nazionale in realtà, come tutti sanno, scadrà con le elezioni di dicembre dove entreranno in lizza i veri pezzi grossi della politica e delle milizie libiche.

Siamo ben lontani dalla stabilità e lo stesso governo Dbeibah che si è presentato a Roma è un’entità assai precaria e di transizione. E dobbiamo fare i conti con una Libia dove le influenze esterne sono preponderanti: né il leader turco Erdogan né Putin hanno intenzione di rinunciare alle loro posizioni strategiche. La Turchia ha vinto la guerra contro Haftar garantendo all’Italia – protettore politico del governo Sarraj che aveva praticamente insediato – l’attuale ruolo in scena di primo partner; mentre la Russia è entrata sulla costa nordafricana per ampliare la sua presenza militare. Quindi all’Italia, incapace di difendere i propri interessi nazionali e strategici, non resta che l’appoggio europeo e quello americano, senza però farsi troppe illusioni, perché il passato recente dimostra in abbondanza che gli interessi occidentali e quelli italiani non sempre convergono. Oggi, per esempio, la Francia di Macron mostra solidarietà al governo Draghi ma per anni proprio in Libia ha sabotato sistematicamente le iniziative diplomatiche di Roma.

Non dimentichiamo che l’attacco della Francia a Gheddafi nel 2011, appoggiato da Usa e Gran Bretagna, significò la maggiore sconfitta italiana dalla Seconda guerra mondiale e la perdita di 50 miliardi di accordi economici con il leader libico ricevuto a Roma appena sei mesi prima in pompa magna. Ma per noi sonnambuli la vita è anche sogno. Così lunedì chi entrava alla Farnesina veniva accolto da un cartello con una freccia: «La nuova Libia incontra le imprese italiane».

Una segnaletica densa di promesse e un po’ da bazar, come se da qui in poi ci stesse attendendo un mondo nuovo, con i loghi di Eni, Leonardo, Saipem, Fincantieri e tanti altri. In discussione c’era persino la costruzione dell’«Autostrada della Pace» inserita negli accordi siglati da Berlusconi e Gheddafi nel 2008, quella che avrebbe dovuto sostituire la Via Balbia, voluta da Mussolini e rinominata in onore di Italo Balbo abbattuto nel 1940 da fuoco amico nel cielo di Tobruk.

Insomma nell’Italia di Draghi non si butta via niente e si ricicla anche Berlusconi che insieme a Gheddafi voleva togliere la sabbia dall’asfalto della Via Balbia. Oggi la sabbia finisce negli occhi di chi non vuole vedere, come noi, italici sonnambuli.