Come ha sottolineato Loris Caruso su questo giornale a proposito di Podemos, tutto si può dire tranne che sia fallimentare un partito nato due anni fa, schierato a sinistra del Psoe, che riesce a stabilizzare un blocco elettorale del 20%. Quanti partiti in Italia vorrebbero vivere esperienze fallimentari così profittevoli?

Eppure i commenti sono stati di delusione e il partito è andato alla ricerca delle ragioni del «fracaso». Astensionismo a parte (merita una riflessione più approfondita), ciò che colpisce delle elezioni spagnole è la conferma del peso di Podemos nella sinistra parlamentare. Le aspettative erano troppo alte, e i timori legati al Brexit non hanno aiutato l’elettorato a spingersi verso una «terra incognita». Forse Podemos attraversa una «crisi di crescita», ma crediamo che queste elezioni verranno ricordate come la conferma della sua importanza nel sistema politico spagnolo.

E quindi, anche se non ha ricevuto tutti i voti che ci aspettavamo, come ha fatto Podemos ad affermarsi in così poco tempo? Quali le ragioni del sostegno? Gli elettori sembrano essere stati motivati da tre ordini di ragioni: la critica alle politiche di austerità e il sostegno a politiche espansive e di rilancio di politiche sociali; la sfiducia nelle forze politiche tradizionali del centro sinistra (confermata, seppure in modo sfavorevole a Podemos, dalle recenti indagini demoscopiche secondo cui l’accordo con Izquierda Unida ha incrementato l’astensionismo); il desiderio di rivedere una politica fatta di speranza, passione e partecipazione. Temi che ricorrono spesso nella «nuova sinistra» post-austerità.

Ma cosa dice questa esperienza a chi è anche interessato alle questioni italiche? Che non ci sono cittadini che votano con la «testa» e altri con la «pancia». Non ha senso contrapporre ragione e sentimento come fanno molti commentatori quando l’elettorato privilegia opzioni da loro non gradite (siano i candidati Cinque Stelle alle amministrative, o il Brexit), con la recondita convinzione di aver la superiore facoltà di comprendere le reali dinamiche del mondo. Soprattutto quando il presunto voto «emotivo» diventa di massa, allora la netta separazione testa/pancia diventa riduttiva: le emozioni sono importanti e presenti nelle scelte politiche.

Non a caso l’esperienza politica nel «secolo breve» si è nutrita così spesso di aspetti simbolici capaci di connettere fra loro milioni di persone e di conferire senso a scelte e decisioni. Se oggi si ritiene di non dover più frequentare quelle formidabili foreste di simboli che sono state le ideologie otto-novecentesche, non per questo si può prescindere dall’elaborazione e condivisione di idee e proposte «forti». Sappiamo che lo stesso neo-liberismo ha avuto bisogno di una lunga incubazione ideologica.

Non esistendo il vuoto in politica, il disarmo ideologico della sinistra lascia spazio alle incursioni dei soggetti più attrezzati a intercettare la delusione di promesse non mantenute. Nel maggio del 2000, un grande scrittore, Giuseppe Pontiggia, dopo aver assistito ad uno spettacolo di Grillo scriveva queste considerazioni sulla Domenica del Sole 24 Ore: «Io sono di sinistra, diceva Grillo in platea, ma dov’è la sinistra? Non sono cambiato io, è che non riesco più a trovarla, è qua sotto, mi scappa via, dov’è andata? E il pubblico che applaudiva di che parte era?». Pontiggia concludeva il suo intervento affermando che «in crisi non sono le ideologie, ma i loro tradimenti» o perlomeno, diremmo noi più prosaicamente, manca una loro convincente rivisitazione. Più di quindici anni dopo, continua a essere un’intuizione drammaticamente vera.