Si imputa spesso alle politiche europee di essere poco trasparenti, incerte e, dopo l’austerità, anche inique dal punto di vista sociale. Non è questo certamente il caso del reddito minimo garantito (rmg). Sin dal 1992 la Commissione europea adottò una Raccomandazione che rendeva evidenti e molto precisi i contorni di questa misura di cui godevano già alcuni paesi sulla base delle loro Costituzioni nazionali che incentrano le loro architetture di diritti e prestazioni attorno al meta- principio della dignità della persona. L’idea di Delors, prima di procedere ai negoziati che avrebbero portato all’approvazione del Trattato di Maastricht e, quindi, al rilancio del mercato interno ed alla costruzione di un’unione monetaria, era di definire un pacchetto di trattamenti sociali «comuni» in modo da scoraggiare la concorrenza «sleale» tra stati (quella che viene chiamato social dumping). Questa operazione non riuscì interamente, anche perché allora le competenze sovranazionali erano molto più limitate, ma la Raccomandazione invitò solennemente tutti i paesi membri a dotarsi di schemi di reddito minimo garantito da erogarsi ai quei soggetti che, secondo parametri europei, sono a rischio di esclusione sociale, si da assicurare la percezione di almeno il 60% del reddito mediano da lavoro dipendente, calcolato per ciascun paese. A coloro che si trovano in situazione di difficoltà va assicurata anche una tariffazione agevolata per i servizi indispensabili (come luce e gas), un aiuto – se necessario – alle spese di affitto e la copertura di quelle impreviste. Questo insieme di misure mira a consentire a tutti di condurre una vita libera e dignitosa garantendo, almeno, i mezzi «elementari di vita».

Da quella data è quindi molto chiaro che tipo di prestazioni ogni paese deve assicurare; ad esempio per l’Italia la soglia del 60% prima indicata è pari a 600 euro mensili, così come è ben noto il numero di italiani che sono a rischio di esclusione sociale. Mentre il reddito di cittadinanza per definizione spetta a tutti, indipendentemente dalle condizioni lavorative e patrimoniali, il reddito minimo garantito presuppone una situazione concreta di bisogno. Le finalità ultime delle due misure sono le medesime e cioè realizzare per tutti le precondizioni di ordine sociale di un gioco democratico equo ed parti partecipativo, quella che il Presidente Roosevelt chiamava «freedom from want». Per questa ragione anche il reddito minimo garantito costituisce un corollario ineludibile di una nozione di cittadinanza autenticamente incentrata su basi solidaristiche «assicurando ad ogni persona bisognosa le condizioni materiali indispensabili per la sua esistenza» (Tribunale costituzionale tedesco 9.2.2010). Tornando all’Europa non solo la Raccomandazione del 1992 è stata reiterata nel 2008 in piena crisi economica internazionale, ma si è avuta una vera e propria «costituzionalizzazione» dell’rmg. Questo diritto sociale fondamentale è stato prima recepito nella Carta dei diritti dei lavoratori comunitari (1989), quindi nella Carta sociale europea del 1996 (del Consiglio d’Europa) ed infine nella Carta dei diritti dell’Ue (più nota come Carta di Nizza, le cui norme godono dello «stesso valore giuridico dei Trattati» dal 1.12.2009) che al suo articolo 34 sancisce «il diritto all’assistenza sociale ed abitativa volte a garantire un’esistenza libera e dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti». Quest’ultima norma rende evidente che la misura deve avere natura individuale ed è volta alla protezione della dignità delle persone, non ad un loro reinserimento lavorativo. Proprio il Parlamento europeo con una storica Risoluzione dell’Ottobre del 2010 (adottata con 539 voti a favore e 19 contrari) non solo ha nuovamente invitato gli stati che ne sono privi (Italia e Grecia) ad adottare l’rmg, ma tutti i paesi a rispettare i parametri già fissati a livello europeo e ad erogarlo secondo modalità che siano rispettose della sua natura di diritto fondamentale. Il reddito minimo garantito non può essere quindi accompagnato da forme di controllo e sorveglianza che mortificano quella dignità degli individui che invece si vorrebbe tutelare. Non può neppure essere condizionato all’accettazione di offerte di lavoro che non siano compatibili con il livello professionale acquisito o il curriculum formativo. Infine l’rmg, insieme al diritto alla formazione permanente e continua e a quello di accesso gratuito ad efficienti servizi di collocamento, costituiscono i tre pilastri della politiche cosiddette di flexicurity formalizzate nel 2007 con gli 8 principi comuni cui tutti gli stati dovrebbero ispirarsi in materia sociale. Si tratta, comunque, di una tendenza planetaria. Proprio alcuni dei paesi emergenti hanno fatto del reddito minimo garantito un momento essenziale delle loro politiche. In Brasile 34 milioni di persone vivono con la Bolsa social, subordinata – per chi è genitore- al solo obbligo di mandare i figli a scuola. Molti stati dell’India usano l’rmg per impedire la distruzione dell’economia rurale. Le Corti del Sudafrica lo riconoscono come un diritto fondamentale, cosi come la Corte interamericana dei diritti dell’uomo (come specificazione del «diritto alla vita»).

La reazione scomposta del sottosegretario Fassina alla proposta legislativa di reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle (peraltro cauta e prudente) lascia, quindi, sbigottiti. Si è prontamente smentito quanto sostenuto dallo stesso Pd che, sotto la dirigenza Bersani, inserì tra gli 8 punti da sottoporre al Movimento anche una proposta di rmg. Inoltre la relazione dei saggi nominati da Napolitano prima del varo del governo di larghe intese( di cui costituisce la piattaforma «ideale») ha espresso una valutazione positiva delle esperienze europee di rmg, in particolare per il modello francese di Revenu de solidarieté active che prevede assegni pari al doppio di quelli previsti dal M5S. Parlamentari del Pd hanno peraltro già depositato in questa come nella precedente legislatura proposte di legge che – immaginiamo – dovrebbero attirare i fulmini di Fassina. Posizioni del genere condannano l’Italia, tra le sue tante sventure, anche a dover avere l’unico partito socialdemocratico sul piano globale contrario ad una garanzia universalistica dei «bisogni primari». Il disinteresse ostentato per la sorte di circa 10 milioni di poveri italiani finisce con il minare, alla fine, qualsiasi strategia di resistenza sociale. Ma c’è di più: l’Italia «deve» adottare una misura del genere che persino la Grecia in default ha annunciato, la scorsa settimana di voler approntare. Ci si illude forse che, mancando una direttiva Ue si tratti solo di una libera scelta, ma non di un obbligo? Si dimentica però che, nell’area euro e con l’avvio dei «semestri europei», le indicazioni sovranazionali (a cominciare dalle Raccomandazioni) si fanno sempre più stringenti sui paesi riottosi, soprattutto se questi sono a rischio di dover chiedere, come l’Italia, aiuti (ne abbiamo visto qualcosa con la famosa lettera Bce).

In ogni caso l’Italia è obbligata a perseguire gli obiettivi fissati dalla «Strategia 20-20» che nel 2010 ha sostituito quella di Lisbona che ci impone di ridurre (nel decennio) del 20% il numero dei nostri poveri. In mancanza dell’unico strumento in grado di aggredire direttamente il fenomeno, l’Italia ha, tra i 28 paesi dell’Unione, il tasso più elevato di crescita dei soggetti a rischio di esclusione sociale, il che potrebbe portare (se ne sta discutendo) ad escluderci dalle risorse del Fondo sociale europeo, cioè dalle uniche risorse che in qualche modo possono essere giocate nella crisi. Insomma, caro vice-ministro, se non volete farlo per convinzione, fatelo perché è un obbligo ed è troppo rischioso violarlo ancora a lungo.