Petrolio, business sulle spalle dei migranti e l’avanzata dei jihadisti sono i tre motivi per cui l’anarchia libica inizia a fare paura all’Italia. E se i jihadisti dello Stato islamico (Isis) hanno preso il controllo di Sirte, 500 chilometri da Tripoli, è evidente che i diplomatici italiani di stanza nella capitale libica non dormano sonni tranquilli. La risposta concitata degli impiegati della rappresentanza diplomatica italiana alla nostra domanda sulle voci di un’imminente chiusura temporanea e di un dimezzamento del personale lo conferma. Le ragioni di sicurezza impongono la possibilità che il personale diplomatico lasci la Libia da un momento all’altro dopo l’invito di ieri ai connazionali (che dagli inizi di febbraio viene diffuso in via non ufficiale) di abbandonare il paese che va in frantumi.

Con la chiusura delle principali sedi diplomatiche nel paese, in seguito ai gravi attentati al consolato Usa di Bengasi nel 2012 (dove perse la vita l’ambasciatore Chris Stevens) e alle rappresentanze diplomatiche francesi, l’ambasciata italiana resta il principale bersaglio dei jihadisti sulla via verso Tripoli.

E così suonano ridondanti le dichiarazioni di guerra del premier Matteo Renzi e del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Sembra che chi non ha saputo difendere gli interessi italiani nel paese permettendo gli attacchi della Nato del 2011, che hanno favorito francesi e inglesi, ora abbia come solo scopo la difesa dell’edificio di rappresentanza più che la stabilità di un paese completamente lacerato dove è vero tutto e il contrario di tutto, dove i pro-Haftar si mascherano da gheddafiani, i Fratelli musulmani da difensori del parlamento eletto, e in questo vuoto politico senza precedenti si insinuano sempre più prepotentemente i jihadisti radicali dell’Isis.
Se la proposta di un intervento militare italiano sotto l’egida delle Nazioni Unite miete successi bipartisan tra i partiti politici nostrani e non solo (anche Malta sarebbe ben felice di un intervento che venisse presentato come risolutore della grave ferita dei sanguinosi sbarchi di migranti che partono dalle coste libiche), a lanciare un avvertimento a uno spavaldo Gentiloni ci ha pensato la radio on-line (che trasmette in diretta da Mosul) dello Stato islamico, al-Bayan, che, citando le dichiarazioni del governo italiano, ha definito Gentiloni come «il ministro degli Esteri dell’Italia crociata».

In verità motivi di preoccupazione per la presa di Sirte ce ne sono e come. Coinvolgono principalmente gli interessi delle grandi compagnie petrolifere, tra cui la francese Total, che controlla l’area di al-Mabruk, pochi chilometri a sud di Sirte. Proprio da qui, il 4 febbraio scorso è iniziata l’avanzata inesorabile dei guerriglieri che si rifanno alla galassia dell’Isis. Per settimane è infuriata qui la battaglia fra i miliziani della Petroleum Protection Guard di Ibrahim Jadran e i miliziani Scudo di Misurata. Ora nelle mani dei jihadisti non c’è solo il porto ma il centro urbano, inclusa radio, televisione di Stato, le emittenti private Free voice e Radio Miksashi (dalle quali sono stati trasmessi discorsi di al-Baghdadi) e uffici dell’amministrazione locale. Uomini armati avrebbero costretto gli impiegati a lasciare il palazzo del governo. L’aviazione filo-Haftar ha bombardato invece i jihadisti diretti verso il terminal di Al Zahram, a sud-est di Sirte. Tuttavia, gruppi armati sono riusciti a incendiare una stazione di servizio a due passi dal giacimento mentre i dipendenti dell’impianto di estrazione sono stati evacuati. Non solo, un convoglio militare con bandiere dello Stato islamico ha circondato l’ospedale di Sirte, difeso dalle milizie Scudo mentre i pazienti sono stati trasportati a Misurata.

I combattimenti sono andati avanti anche al confine tunisino. Negli scontri di ieri tra esercito pro-Haftar e miliziani del cartello Alba (Fajr) sono stati uccisi dodici combattenti e venti sono i feriti. Infine, i miliziani dell’Isis hanno attaccato un oleodotto che trasporta petrolio dal Sud fino a Tobruk. E così la Noc ha avvertito che presto sarà costretta a interrompere le operazioni nel paese: la produzione di petrolio è calata a gennaio a circa 325mila barili al giorno contro i 900mila di ottobre.