Come accade non di rado, si sta discutendo – assai accaloratamente sul nulla.  E ci si sta accanendo, con foga, su un falso bersaglio. Di conseguenza, il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo sembra diventare il solo e autentico discrimine.

Tra una politica estera realistica e saggia, lungimirante e prudente e una fondata sui buoni sentimenti e sulle ottime intenzioni, su scenari irenici e orizzonti utopistici. Nulla di più falso. I termini veri della questione sono totalmente diversi. L’8 aprile del 2016 l’ambasciatore italiano al Cairo fu richiamato in Italia al fine di segnalare lo stato di crisi nelle relazioni tra il nostro Paese e il sistema politico egiziano, sfrontatamente ostile a una collaborazione seria con le istituzioni italiane e con la procura di Roma al fine di acquisire la verità sull’atroce morte del nostro connazionale.

Da allora il comportamento del regime di Al-Sisi e della procura di quel Paese non è affatto cambiato e il solo mutamento percettibile consiste nell’ulteriore deficit di cooperazione, manifestato attraverso una successione di omissioni e menzogne. Basti un solo esempio: i video registrati dalle telecamere collocate nei luoghi che hanno visto, prima, la scomparsa di Giulio Regeni e, poi, il ritrovamento del suo cadavere seviziato, promessi da un anno, mai sono stati consegnati ai magistrati italiani. Ma non è nemmeno questo il punto essenziale. La vera questione risiede altrove: ovvero nel fatto che, a distanza di circa 19 mesi dal rapimento di Regeni, la mancata presenza del nostro ambasciatore al Cairo resta la sola – attenzione: la sola! – misura critica adottata nei confronti dell’Egitto. Ecco, questo è il punto: il richiamo dell’ambasciatore è il solitario segnale del fatto che tra Italia ed Egitto non è stata restaurata la normalità delle relazioni politiche, diplomatiche e istituzionali. L’unica manifestazione della persistenza di un conflitto. Dunque, se l’ambasciatore italiano tornasse al Cairo, l’Italia si troverebbe totalmente impotente e priva di qualunque strumento di pressione e influenza.

Siamo in una fase delicatissima e rinunciare a quel poco di deterrenza finora esercitata nei confronti dell’Egitto sarebbe né più né meno che autolesionismo. Insomma, non c’è alcuna posizione preconcetta. Il ritorno dell’ambasciatore in Egitto può essere una scelta razionale e perfino opportuna, ma a patto che sia accompagnato da altre significative misure, almeno tanto rilevanti quanto l’assenza della nostra massima autorità diplomatica. Altrimenti si alimenta l’idea che le relazioni tra i due Paesi siano definitivamente normalizzate.

L’allora ministro degli Esteri Gentiloni, in più di un colloquio, mi assicurò che, nel caso di ritorno dell’ambasciatore, sarebbero state adottate misure importanti, dal campo degli scambi commerciali a quello dei rapporti culturali, dalla cooperazione militare alle manifestazioni sportive, dai rapporti tra università alla formazione di funzionari pubblici. Senza escludere un fattore particolarmente sensibile: l’intervento sui flussi turistici dall’Italia e dall’Europa. Ma nulla di tutto ciò è stato realizzato o anche solo predisposto. Quindi, se si vuole prendere in considerazione il ritorno dell’ambasciatore, e anche solo per valutare seriamente questa ipotesi, vanno chiaramente indicati quali provvedimenti alternativi si intendono adottare. Su questo, finora, non un atto. Di conseguenza deve valere l’impegno di Paolo Gentiloni, nel frattempo diventato presidente del Consiglio.

Nell’incontro del 20 marzo scorso, l’attuale premier, assicurò ai genitori di Giulio Regeni che qualunque decisione relativa all’ambasciatore italiano in Egitto sarebbe stata condivisa con loro. Chi può mettere in discussione la parola del premier?