Tra le cose che più mancano in questa contenzione che va avanti ormai da mesi, oltre che la prospettiva bucolica dei prati in preda al fiorame, o delle spiagge su cui già si riversa un’umanità isterica, esausta, che si butterebbe ancora vestita in acqua come un’abluzione di liberazione; è la dimensione dionisiaca, notturna, l’ebrezza della danza, del sesso, della musica ipnotica che ti porti in quattro quarti al di là dello spazio e del tempo. Insomma è la dimensione del clubbing (o del rave, se si preferisce un’esperienza più oltranzista): il ritmo netto ed erotico dei bassi, della cassa dritta, come colpi assestati a carni aperte, bagnate, con qualche efflorescenza di medi ed alti che ordisce la trama del sogno. Nei primi anni novanta s’iniziò a parlare di dream-house o di piano-house a proposito di una tendenza tutta italiana che cominciò a diffondersi nei club: come un assottigliamento, la riduzione all’essenziale, degli elementi sonori, dei motivi più facili e di cattivo gusto che all’epoca infestava l’house, perché il godimento dell’utenza non fosse più solo il divertimento smodato e chiassoso del ballo (al limite: trenini nelle discoteche, nei billionaire), ma consistesse anche nell’ascolto della partitura e di qui nel ballo consapevole, soffuso, anche solipsistico.

MI PARE SIA QUESTA la connotazione del club, della sua atmosfera: la necessità dell’ascolto e una maggiore accuratezza degli arrangiamenti, come mostra un disco (doppio vinile) in uscita per Rebirth Records in occasione del prossimo Record Store Day. Il titolo è Ciao Italia. Generazioni Underground, anche se a un primo ascolto si fa fatica a trovare dell’underground in suoni ancora legati all’house di consumo. È soprattutto l’onnipresenza del piano a disturbare in queste tredici tracce: qualcosa di ancora analogico che trattiene la corsa integralmente sintetica che poi sarà della migliore deep-house e della techno e che proprio in quegli anni avevano intrapreso gli Hardfloor a cavallo del loro capolavoro, Acperience (1992). Ma non bisogna fare l’errore di valutare questa dream-house alla luce di quello che circola adesso, che circolava prima della pandemia, nei club – è passato troppo tempo da allora e le tappe sono state bruciate a velocità supersonica –, ma considerarla dal punto di vista storico e filologico. Del resto ascoltando brani come The Wizard (Club mix) di Alex Neri si sente già l’incedere di qualcosa come un Glow di Cirez D (club remix), che resta tra le cose più stupefacenti ascoltate e ballate negli ultimi anni: un ritmo incalzante, pulito, un attrito di velluti, serie di riempimenti e svuotamenti sonori. Da lì in poi la dance nei club sarebbe stata, com’è ancora oggi, com’è tornata a essere a Liverpool in questi giorni, un’attitudine notturna, non nel senso del momento della giornata in cui consumare l’esperienza del ballo, ma proprio dell’evocazione di un ecosistema astrale: scuri bassi, cassa dritta, dritta nelle ambagi della notte, e il sorgere improvviso degli alti, riverberi, stelle in alto.