Il cedimento di una diga rappresenta per un territorio uno degli eventi più drammatici e a maggior impatto socio-ambientale. Il crollo della diga mineraria avvenuto il 25 gennaio a Brumadinho, in Brasile, ha provocato più di trecento tra morti e dispersi e un grave inquinamento del suolo e delle acque. Una tragedia umana e un disastro ambientale. Le popolazioni dei territori in cui c’è presenza di dighe si interrogano, dopo ogni catastrofe, sull’affidabilità e la sicurezza delle opere con cui convivono. Perché le dighe sono opere che, per loro natura, hanno un elevato impatto ambientale, modificano in modo irreversibile il territorio, alimentano paure collettive. Il territorio italiano è costellato di dighe e sbarramenti di ogni tipo. Si va dalle gigantesche dighe che sbarrano i corsi d’acqua per alimentare le centrali idroelettriche, alle piccole dighe che creano invasi per uso irriguo o potabile. In Italia negli ultimi 100 anni si sono registrati quattro disastri legati alle dighe. Il disastro del Vajont del 9 ottobre 1963, che non ha paragoni nella storia umana, causò la morte di 2000 persone. Una frana di grandi dimensioni, staccatasi dal monte Toc e caduta nel bacino, produsse un’onda che scavalcò la diga e si riversò nella valle del Piave, investendo Longarone e altri centri abitati. Ma se il Vajont rimane vivo nella memoria collettiva, ci sono le tragedie dimenticate di Gleno, Molare e Val di Stava. Il disastro di Gleno, in Valle di Scalve e Val Camonica, risale al 1° dicembre 1923 e fu causato dal cedimento strutturale della diga, dopo che le forti piogge avevano riempito il bacino. L’acqua e il fango investirono numerosi centri abitati (Dezzo, Colere, Boario, Darfo), causando la morte di circa 500 persone. Fu, invece, il cedimento di una diga idroelettrica a causare il disastro di Molare, al confine tra Liguria e Piemonte, il 13 agosto del 1935. Le forti piogge portarono ad un innalzamento del bacino e al cedimento di una diga secondaria, con 30 milioni di metri cubi di acqua e fango che si riversarono nella valle e colpirono i centri abitati di Molare e Ovada, causando 111 morti. Il disastro più recente è stato quello della Val di Stava, in Trentino, del 19 luglio 1985, quando cedettero gli argini di un bacino minerario utilizzato per l’estrazione della fluorite. Il fango si riversò nella valle, colpendo l’abitato di Stava e uccidendo 268 persone. Era stata la permeabilità degli argini del bacino, costituiti da materiali terrosi, a determinare la «liquefazione per filtrazione» degli sbarramenti, lo stesso fenomeno verificatosi a Brumadinho.

La Fondazione Stava 1985 porta avanti da anni una importante attività di studio e ricerca sulle dighe. Il rischio diga dipende da due fattori fondamentali: stabilità strutturale dell’opera ed eventi naturali. Ma la pericolosità dell’opera dipende anche da altri elementi: dimensioni, caratteristiche strutturali, anzianità, stabilità dei versanti circostanti, sismicità, insediamenti abitativi a valle dell’invaso. La legge del 1994 ha definito le norme relative all’iter di approvazione dei progetti di costruzione, conduzione, vigilanza sui lavori, adempimenti del gestore, ma ha anche introdotto una distinzione tra grandi e piccole dighe. Rientrano nella competenza dello Stato (Direzione dighe del Ministero delle Infrastrutture) «le opere di sbarramento e dighe che superano i 15 metri di altezza o che abbiano un volume di invaso superiore a 1 milione di metri cubi». Spetta alle Regioni, invece, il controllo sugli «sbarramenti che non superano i 15 metri di altezza e che determinano un invaso non superiore a 1 milione di metri cubi». Una distinzione che determina competenze diverse, con notevoli ricadute per quanto riguarda i controlli e la vigilanza sulla sicurezza delle opere. Sono 532 le grandi dighe italiane, per lo più affidate in concessione alle grandi società idroelettriche (Enel, Edison, Iren, A2A) o a Consorzi di bonifica. I concessionari, che hanno la responsabilità della gestione in sicurezza delle opere, si trovano a dover gestire strutture che subiscono l’usura del tempo e necessitano di controlli costanti. Il 60% delle grandi dighe ha più di 50 anni, il 90% è stato costruito prima dell’entrata in vigore delle attuali norme tecniche, il 70% è stato progettato senza prendere in considerazione l’attività sismica, perché al momento della costruzione non esistevano norme in tal senso.

Dopo il crollo del ponte Morandi di Genova ci si è ricordati che esistono anche le grandi dighe tra le opere a cui prestare attenzione. Il ministero delle Infrastrutture ha stabilito la necessità di effettuare controlli specifici su almeno 130 delle grandi dighe di interesse nazionale, in relazione alle loro caratteristiche costruttive e all’anzianità. Nel 2013 la Direzione grandi dighe aveva già individuato 155 invasi che necessitavano di interventi per aumentare la sicurezza, mentre nel 2016 era stato varato dal Governo il Piano dighe. Ma di interventi se ne sono visti ben pochi. Gli enti che gestiscono le dighe hanno l’esigenza di fare profitti e questo può andare a scapito della sicurezza. Ancora più complessa è la questione che riguarda le piccole dighe, di competenza regionale. Nessuno sa esattamente quante siano, perché numerose Regioni non hanno mai censito in modo completo queste opere. Si valuta che siano tra le 12 e le 14 mila e che il loro numero sia aumentato del 60% negli ultimi 30 anni. Risulta che solo 11 Regioni hanno emanato per le dighe di loro competenza una specifica normativa, al fine di valutare il potenziale rischio diga. Si tratta di analizzare gli aspetti relativi al deflusso a valle delle acque, la gestione delle piene, l’apertura degli scarichi, l’ipotetico collasso dello sbarramento. Mancano, in generale, specifiche prescrizioni per quanto riguarda le verifiche periodiche sulle strutture. Solamente la provincia di Bolzano prevede espressamente che «ogni 10 anni le opere che costituiscono lo sbarramento e l’invaso devono essere sottoposte a verifiche globali».

Alcune Regioni delegano ai Comuni il compito di effettuare i controlli sulle opere che si trovano nel loro territorio, ma essi non hanno le risorse e le competenze necessarie per svolgere questo compito. Il territorio italiano ha raggiunto un livello di saturazione per quanto riguarda le grandi dighe, mentre va avanti la costruzione di opere di piccole dimensioni, senza che le Regioni siano in grado di controllare adeguatamente vecchie e nuove strutture. Va segnalato, inoltre, il problema dell’abbandono di migliaia di piccoli invasi, che non sono più gestiti da alcun ente e che rappresentano un potenziale rischio. La messa in sicurezza di queste strutture abbandonate o il loro recupero è un ulteriore problema da affrontare per la salvaguardia del territorio e delle popolazioni.