Un paese povero, stagnante, desertificato, senza ormai un’ossatura industriale, dove si conferma la tendenza storica ai bassi salari e alla bassa crescita. Stipendi bloccati, la disoccupazione al livello del 1977 (12,5%) destinata a crescere ancora (+0,1%), quella giovanile al terzo posto in Europa (con il 41,2%, subito dopo Grecia e Spagna), la povertà relativa che colpisce 9 milioni di persone mentre quella assoluta flagella la vita di altri 4, quasi un pensionato su tre (46,3%) con un reddito inferiore ai mille euro. I peggiori anni della sua vita non sono finiti. L’Italia si è risvegliata nel 2014 in un mondo non molto diverso da quello in cui viveva negli anni Cinquanta.

Privatizzazioni

Nei borsini delle agenzie di rating, snodi della governance neoliberale imposta dal capitalismo finanziario, l’economia italiana viene valutata poco più di un titolo spazzatura. Insieme alla Bulgaria, a Panama e alla Colombia, il rating è una tripla B. Sebbene il fantasma dello spread sia stato domato, con un rapporto debito pubblico/Pil al 133%, l’Italia è vicina al default, non molto diverso da quello della Grecia. Per una strana, e fatale, coincidenza, questi paesi quasi falliti, almeno secondo le regole capestro del Trattato di Maastricht, saranno alla guida dell’Unione Europea nel 2014. La Grecia di Samaras ha iniziato ieri. A Letta &Co. toccherà dal 1 giugno.

Tutta la credibilità del governo, la merce più preziosa che lo Stato italiano vende oggi sui mercati, consiste nel mantenere il rapporto deficit/Pil sotto il 3% anche nel 2014. I guai seri, e non le fibrillazioni da operetta viste fino ad oggi, inizieranno quando la dittatura commissaria della Troika imporrà la «riforma delle riforme»: l’abbattimento del debito pubblico dall’attuale 133% al 60%, con tagli da 50 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni.

Questo prevede il «Fiscal compact» votato nel 2012 da Pd e Pdl in Costituzione. Il piano di privatizzazioni stabilito con il decreto «Destinazione Italia» è una goccia nell’oceano: 12 miliardi di euro per il 2014, di cui 6 per ridurre un debito pubblico. 32 miliardi sono attesi in tre anni dalla spending review diretta dall’ex Fmi Carlo Cottarelli.

Disoccupazione strutturale

Il terremoto avverrà nello scenario della «stagnazione secolare» descritta da uno responsabili della crisi mondiale, l’ex segretario al Tesoro Usa Lawrence Summers.Dopo il -1,8%, nel 2014 la crescita da prefisso telefonico, (la Commissione Europea dice lo 0,6%, l’Istat lo 0,7%, il governo si sbilancia con l’1,1%) non produrrà nuova occupazione. Anzi, sarà la disoccupazione ad aumentare.Il 30 dicembre l’Inps, l’Istat e il ministero del Lavoro hanno diffuso il rapporto sulla coesione sociale che conferma l’esistenza di un mercato del lavoro con sempre più disoccupati. Gli occupati invece hanno i salari congelati, 1.304 euro per gli italiani e 968 euro per gli stranieri. Il salario netto mensile è rimasto stabile per i primi (+4 euro) ed è in calo di 18 euro per i secondi, i valori più bassi dal 2008. Peggiora anche il divario di genere: gli uomini guadagnano in media 1.120 euro, le donne 793. Da queste retribuzioni sono esclusi 2 milioni e 744 mila disoccupati (+636 mila rispetto al 2011), per non parlare degli autonomi.

Per la Cgia di Mestre, dal 2008 a giugno 2013, 400 mila lavoratori indipendenti hanno cessato l’attività. In cinque anni e mezzo di crisi la contrazione è stata del 6,7% su un totale di 5.559 milioni di lavoratori a partita Iva. Ogni 100 lavoratori autonomi, 7,2 hanno cessato l’attività. La crisi iniziata nel 2008 ha spazzato via 1.158 milioni di posti di lavoro, al ritmo di 577 al giorno. Un rapporto di Confartigianato sostiene che nel 2013 siano raddoppiati: 1.118 al giorno. A settembre erano fallite 8900 imprese.

Secondo l’Osservatorio dei lavori dell’associazione 20 maggio, solo nell’ultimo anno hanno perso il lavoro 63 mila tra partite Iva (-21.446) e lavoratori a progetto (-45.137). Dei 250 mila posti di lavoro “atipici” persi in 6 anni circa 150 mila sono ragazzi sotto i 29 anni (60%) a cui si aggiungono altri 99 mila lavoratori tra i 30/39 anni (39%). I redditi dei quasi 650 mila contratti a progetto iscritti alla gestione separata si attestano sui 9.953 euro lordi annui a fronte della media di 18.073 euro. I più colpiti dalla crisi sono i giovani tra i 15 e i 24 anni, e i giovani adulti fino ai 34 anni. Secondo il rapporto sulla coesione sociale, i lavoratori dipendenti sotto i 30 anni sono diminuiti dal 18,9% al 15,9%. Nell’ultimo quadriennio i “giovani” a tempo indeterminato sono passati dal 16,8% al 14%. Nel vasto campo della precarietà, ormai l’unica forma per ottenere un impiego, la trasformazione è compiuta: nel primo semestre 2013 il 67% dei rapporti di lavoro era a tempo determinato.

Il bengala difettoso

«Lotta alla disoccupazione giovanile» annunciò Letta il 26 giugno 2013 presentando un pacchetto di norme ad hoc. Gli esiti sono al momento più che deludenti. Sarà il refrain anche del 2014, in attesa del 1,5 miliardi di euro destinati alla «Garanzia giovani» un programma europeo che finanzierà la misura aurea del rilancio dell’occupazione: l’apprendistato (tirocini e stage entro quattro mesi dalla laurea o diploma). È ancora l’idea della riforma Fornero: da questo strumento irrisorio per creare occupazione in Italia, ci si aspettano miracoli, al punto da stanziare risorse per introdurlo al IV e V anno dei professionali. Il bilancio 2013 è stato catastrofico: gli occupati sono solo il 2,4% nell’ultimo trimestre 2013, 57.843 in tutto, -7% rispetto al 2012. Al governo sostengono che c’è stata una ripresa negli ultimi mesi, ma è irrisoria. Le imprese non assumono perché temono che gli apprendisti facciano causa e vengano assunti. Un classico nel precariato italiano. Vale per tutti. Per questo il governo Letta ha modificato questa norma della riforma Fornero. Per rendere più flessibili i già flessibilissimi «giovani» e regalare alle imprese uno stato di eccezione permanente.

Tutto inutile. Lo ha ammesso lo stesso ministro del Lavoro Enrico Giovannini in un’intervista a Il Sole 24 ore del 31 dicembre. L’arma finale contro la disoccupazione giovanile si è rivelata un bengala difettoso. Le imprese che avrebbero dovuto assumere 100 mila giovani, alla fine ne hanno contrattualizzati 15.300 a tempo indeterminato e solo 3 mila sono a contratto a termine. Le imprese, dice Giovannini, non assumono a causa della crisi. Ciò non cancella il regalo che gli ha fatto il governo, come ha denunciato il giuslavorista Piergiovanni Alleva in un’intervista a Il Manifesto del 1 luglio scorso. Letta vuole combattere la disoccupazione stabilendo che i contratti a termine possano essere usati in alternativa al contratto a tempo indeterminato. Per questo ha prorogato il primo contratto fino a 24 mesi. Una volta spremuto il lavoratore, sostiene Alleva, l’azienda può prenderne un altro e fargli fare la stessa fine.

Alta ricattabilità

La violenza esercitata dalle imprese sui singoli non verrà ridotta da incentivi frammentari erogati a pioggia. Nell’ambito dell’applicazione della «Garanzia giovani» il governo ha annunciato di pensare ad una riforma dei centri per l’impiego. Un’idea che è stata raccolta anche da Renzi che a fine gennaio dovrebbe dare corpo al suo fumoso «Job Act». Secondo l’Isfol, oggi solo circa il 3% delle nuove assunzioni passa dai Centri per l’Impiego. Chi non ha lavoro è lasciato da solo dallo Stato, una monade impazzita persa in un’universo indifferente. Un’elaborazione Datagiovani su dati Eurostat dimostra che, per ogni disoccupato, lo stato investe circa 200 euro l’anno, a differenza di Germania (3 mila) e Francia (2.200).

Questo è un altro degli esiti della totale deregolamentazione del mercato del lavoro e dell’assoluta mancanza di tutele sociali. In attesa di un molto vociferato rimpasto di governo, il 9 gennaio Giovannini incontrerà le parti sociali con l’obiettivo di estendere queste tutele a 3,5 milioni di precari.

In un’articolo sulla voce.info, la sociologa Chiara Saraceno ha definito inadeguati i fondi per finanziare il sostegno di inclusione attiva (Sia): 120 milioni in tre anni per una «social card» a disposizione delle famiglie con Isee di 3 mila euro. Anche il totale di 800 milioni per il contrasto alla povertà bastano appena per un anno. Dovrebbero essere usati per una misura universale, contro la povertà e la disoccupazione, stabile e non provvisoria come sono tutte le sperimentazioni in Italia. Servirebbero almeno 8 miliardi all’anno per finanziare una misura di reddito minimo e un chiarimento terminologico sulla differenza tra reddito minimo e il concetto di sussidio ai poveri. Se questa è la sua intenzione, conclude Saraceno, il governo lo dica. Sapendo che quest’ultimo spot a favore dell’ipocrisia generale, non servirà ad arginare i danni del ricatto del lavoro e della sua assenza.