C’è un momento, nelle vicende che accadono alle persone, in cui tutto sembra subire un’accelerazione improvvisa, come quando in natura ci si trova a osservare una sera una piantina grassa, e la mattina dopo un fiore sovradimensionato è sbocciato a dispetto di ogni possibile previsione. Le accelerazioni storiche ci appaiono totali perché, di colpo, rendono visibile ciò che era nell’ombra, ma c’era. Il 1972, mezzo secolo fa, è stato l’anno dell’impetuosa, svettante, prodigiosa crescita e affermazione del progressive e art rock italiano. L’anno in cui, clamorosamente, la Penisola della musica consegnata al luogo comune trito e infestante del bel canto, del mandolino e delle serenate, diventa anche luogo da considerare con attenzione, da parte degli altri protagonisti del bordo più accorto e tagliente della popular music. Una fioritura completa e impressionante che, al di là del dato numerico e qualitativo, deve invece farci riflettere su quanti semi di futuro fossero andati a germogliare, almeno a partire da quel Festival di Sanremo in cui per la prima volta un cantante del Sud aveva osato muovere le braccia davanti a un microfono raccontando la storia spiazzante di un omino con un vestito blu che fluttuava invisibile nel cielo dello stesso colore, e poi viva via dell’arrivo del rhythm’n’blues e del rock’n’roll, degli «urlatori», della riscoperta delle note folk e popolari, dei primi ascolti clandestini o quasi dei gruppi inglesi e americani. Poi il tutto, in un periodo che possiamo più o meno situare nella seconda metà degli anni Sessanta, innescò una gigantesca reazione chimica, e di colpo era nato il progressive rock italiano, che, appunto, nel 1972 produsse dopo un periodo di assestamento e di tentativi ancora ingenui e altalenanti i primi capolavori ancora oggi imitati, studiati, riproposti in mille versioni diverse.
C’erano dentro elementi classici, ricordi di note tradizionali, la grammatica e la sintassi matura del jazz che girava attorno, le timbriche e le sperimentazioni delle note classico contemporanee, e molto altro ancora: un cocktail non è mai la somma algebrica dei suoi elementi, ma un nuovo gusto e un nuovo profumo. Che si diffuse anche con altri canali, nel ’72: dal 25 al 27 maggio sui prati di Villa Pamphilj a Roma, sessanta gruppi per il Festival pop, dall’1 al 4 giugno, sempre nella Capitale, ma nello Stadio del tennis il secondo festival d’avanguardia, trenta gruppi sul palco, presenta Renzo Arbore coadiuvato da un giovanissimo Teo Teocoli, dal 16 al 18 giugno il secondo festival di Re Nudo nel pavese, a Zerbo, sulle rive del Ticino, declinazione pienamente «freak» e comunitaria, per lo sdegno democristiano d’epoca, il 23 luglio il free-folk pop festival di cultura musicale non commerciale a Bottagna, La Spezia, venti gruppi e solisti, medesima aria libertaria. E centinaia di altre date lungo la Penisola. Si faccia caso: mai compare il termine «progressive»: è un’invenzione della tradizione successiva. Ma, intanto, ecco i dischi dell’anno capolavoro, mezzo secolo fa.

Premiata Forneria Marconi, Storia di un minuto
C’era una volta, nella Milano grigia e inquieta degli anni Sessanta appena rischiarata dai movimenti e dai «capelloni», un gran gruppo pop, i Quelli, abili in studio a supportare chiunque. Poi diventano i Krel, studiano e provano quanto arriva dall’Inghilterra, diventano infine la Premiata Forneria Marconi, che nel ’72 esordisce con un colpo già da maestri: dentro c’è la celeberrima Impressioni di settembre, che verrà omaggiata anche da Patti Smith, e La carrozza di Hans, ma è l’intero disco a mostrare i segni di una crescita tumultuosa, con brani che hanno preso il meglio di Yes, King Crimson, Caravan, e già suonano, però, inconfondibilmente «mediterranei». Da allora la strada per Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Mauro Pagani e compagni sarà in discesa, ma è una discesa fatta pedalando a più non posso, come dimostrerà il successivo e di nuovo memorabile Per un amico.

Perigeo, Azimut
La risposta italiana non pedissequa ma inventiva al jazz rock inglese di Nucleus e Soft Machine, e a quello a stelle e strisce di Miles Davis, Mahavishnu, Weather Report e tante altre formazioni che hanno saputo mettere assieme la finezza del jazz e le timbriche del rock arriva con il Perigeo, con musicisti già navigati come il contrabbassista Giovanni Tommaso, che mette le basi del progetto, dopo aver già sperimentato per proprio conto il nuovo suono elettrico del jazz, il pianista Franco D’Andrea, che con il nuovo gruppo affronterà anche le tastiere elettriche e elettroniche, Claudio Fasoli ai sax, il più giovane batterista Bruno Biriaco, l’italo americano chitarrista Tony Sidney. Azimut è un esordio svettante, tutt’altro che indeciso, come racconta la vulgata rock, che stabilisce le coordinate sonore di un suono intriso di jazz pulsante che, a propria volta, farà scuola in Italia: vedi alla voce Baricentro, Esagono, Art & Mestieri, e tanti altri.

Il Balletto di Bronzo, Ys
Nel maggio del 1970 avevano già pubblicato un ottimo lavoro, Sirio 2222, che metteva in conto uno strano, gotico equilibrio tra hard rock progressivo inglese e progressive rock puro, quello dei gruppi che da noi si definivano «romantici». Poi entra in formazione il carismatico musicista napoletano Gianni Leone, tastierista eccellente, ed altrettanto eccellente voce solista, e il gruppo decolla, sfornando uno dei dischi più belli, oscuri e «di culto» della scena prog italiana, Ys, dove naturalmente dominano le tastiere, (soprattutto Hammond e mellotron, ma anche clavicembalo e celesta) di Leone. In pratica una dark suite su cinque movimenti, con nervature jazz, classico-contemporanee, hard rock e dedicata a un futuro distopico e inquietante che assomiglia molto al nostro mondo attuale. Ai cori c’è una giovanissima Giuni Russo. Un disco importante, che conoscerà anche una versione inglese.

Alan Sorrenti, Aria
Sì, è proprio lui, quello che avrebbe ammorbato poi l’etere con i Figli delle stelle. Ma nel ’72 il cantautore napoletano, in pratica la risposta italiana e prog alla voce d’angelo Tim Buckley, dall’altra parte dell’oceano, e a quella tormentata di Peter Hammill, è tutt’altra cosa e lo dimostra, con coraggio, presentando questo disco sul palco di Villa Pamphilj. Il brano che dà il titolo all’album è una suite da 19 minuti sulla prima facciata, sorta di incantante e incalzante flusso di coscienza che passa dal lirismo più puro all’aggressività dell’urlo. La canzone perfetta in inconsueto (allora) tre quarti è Vorrei incontrarti, il gruppo che accompagna da sogno: il violino di Jean Luc Ponty, Tony Esposito alle percussioni, il pianoforte del compositore d’avanguardia Luciano Cilio, le tastiere jazzate di Albert Price, tra gli altri.

Banco del Mutuo Soccorso, Banco del Mutuo Soccorso
Certi dischi del prog rock sono iconici fin dalla copertina: tanto più che all’epoca (e il ritorno del vinile d’oggi conferma) le grandi dimensioni del long playing permettevano libertà grafica quasi totale. E a volte tale ricerca si estendeva fino alle forme: come nel disco sagomato «a salvadanaio» del Banco, un esordio folgorante nato dall’incontro tra i fratelli tastieristi Gianni e Vittorio Nocenzi, il formidabile Francesco Di Giacomo, vocalist unico dal timbro tenorile dolcissimo, in Italia, e il chitarrista Marcello Todaro. La prima facciata stabilisce le coordinate di un suono fatato, potente e avventuroso, tutto strutturato sulla voce di Di Giacomo, il contrappunto continuo delle tastiere, una ritmica perfetta. La seconda è un torrente di invenzioni cucite in suite, i diciotto minuti de Il giardino del mago, forse la composizione estesa più efficace mai tentata (e riuscita) dell’intera stagione dell’art rock della Penisola. Un modello per tutti. Non solo in Italia.

Quella Vecchia Locanda, Quella Vecchia Locanda
Arrivavano dalla Capitale i componenti di questo eccellente sestetto, che prese nome dal posto dove provava, molto dotato tecnicamente, e sicuramente assai precoce nell’inglobare nel tessuto musicale elementi presi a prestito dalla grande musica barocca italiana, Vivaldi in primis, come faranno anche, ad esempio, i New Trolls. Il primo disco del ’72, con un’affascinante copertina disegnata apribile in tema favolistico esce per la Help, etichetta sussidiaria della Rca a caccia di talenti emergenti. Un lavoro che offre ottimi spunti di violino e flauto nelle parti più dolci, alternate a momenti più hard ed energetici dominati dalle chitarre elettriche, qualche criticità nella voce solista. Jethro Tull, Pfm, Curved Air, Gentle Giant sullo sfondo: mai calligrafismo, però.

Garybaldi, Nuda
Un disco leggendario e icona di un’epoca, merito anche della stratosferica cover disegnata da Guido Crepax, che mette in copertina una Valentina dai lunghi capelli senza veli e sdraiata in forma di gigantessa, nella savana, il corpo accarezzato dalle zampe di piccoli rinoceronti, tigri, coccodrilli. Il disco dell’affermazione e consacrazione di un altro gigante, Bambi Fossati, il più grande chitarrista prog e psichedelico della Penisola, marcato a fuoco da acidi bagliori hendrixiani, dopo le prime avventure con i gloriosi e seminali Gleemen. Qui brani che si addentrano nella sperimentazione (Decomposizione preludio e pace, esplicite citazioni dal mancino di Seattle, una lunga suite, Moretto da Brescia, che alterna incandescenza sonora a momenti più riflessivi, e che farà da lancio per altre due suite, contenute nel successivo e magnifico Astrolabio, dell’anno successivo.

The Trip, Atlantide
Come ben ricordano i cultori delle sonorità rock più dure, nel primissimo nucleo dei Trip (Trips: al plurale) c’era addirittura Ritchie Blackmore, ben prima che iniziasse l’avventura stellare dei Deep Purple. Dopo un primo disco in bilico tra beat ormai fuori fuoco e prog, inizia la vera danza «progressiva». Atlantide, del ’72, è il loro capolavoro, a cominciare dalla immaginifica copertina apribile creata dallo studio Up & Down, gli specialisti italiani della grafica prog, e dalla concisa efficacia della formazione a tre con le tastiere in primo piano dello scafato Joe Vescovi, il Rick Wakeman italiano, come in Emerson Lake & Palmer, il basso di Avid Andersen, e la batteria «tecnica» di Furio Chirico, che poi fonderà gli Arti & Mestieri. Un concept album dedicato al continente perduto narrato da Platone, che ancora oggi suona fresco, stipato di idee e magnificamente suonato.

Capitolo 6, Frutti per Capua
Viareggini e livornesi i Capitolo 6 cominciano a farsi notare davvero quando «aprono» per i Led Zeppelin a Roma. In studio i quattro toscani riescono a incidere solo questo splendido disco, per una piccola etichetta specializzata in tutt’altre musiche, dedicato alla tragica epopea dei nativi d’America, con belle parti di flauto, e una chitarra elettrica maneggiata a dovere anche quando si alza il muro di suono più hard che prog. Qualcuno noterà l’inconsueta forza visionaria dei testi: sono opera di un giovanissimo e ancora acerbo Francesco De Gregori, che sta prendendo le misure per il suo futuro da cantautore ancora all’orizzonte.

Osanna, Palepoli
Una delle punte più acuminate e «teatrali» del prog italiano: qualcuno ha scritto che probabilmente Peter Gabriel dei Genesis cominciò a truccarsi e indossare maschere sul palco, per moltiplicare l’efficacia del racconto, dopo aver frequentato lo stesso palcoscenico con gli Osanna, ex studenti dell’Accademia di belle arti, che dal vivo per presentare queste note già di per sé cariche si avvalevano, oltre che delle maschere, anche di attori e mimi. Palepoli è un disco ancor oggi urticante e vivo, un concept dedicato a Napoli, la loro città d’origine. Qui è all’opera un vero e proprio «teatro della memoria» in prog, tra forti richiami jazzati, punte di affilato hard rock, lirismo mediterraneo, momenti più lacerati e oscuri, che potrebbero rammentare perfino il cupo dettato degli inglesi Van Der Graaf Generator o dei King Crimson. Un piccolo miracolo, durato troppo poco.

Circus 2000, An Escape from a Box
Nell’ingrato compito dello stilar classifiche, forse i Circus 2000 arriverebbero in testa tra i grandi gruppi misconosciuti, ma dal valore straordinario: un trio di base da power rock, con chitarra, basso e batteria, e su tutto la voce inconfondibile, duttile, potente e straniata di Silvana Aliotta, la Grace Slick italiana, al riascolto: tant’è che nel loro primo disco, del ’70, i riferimenti alla West Coast acida e sognante dei Jefferson Airplane e dei Grateful Dead ci sono tutti. Le cose cambiano parzialmente con il loro disco capolavoro, con la nuova formazione che vede entrare il notevole batterista Dede Lo Previte: i testi restano in inglese, ma un prog stratificato, vagamente apocalittico e decisamente affascinante va a integrarsi nella psichedelia e nelle ben governate distorsioni. Un caso unico, in Italia. Poi, Silvana Aliotta sarà la voce femminile ospite di Io sono nato libero del Banco del Mutuo Soccorso.

Raccomandata Ricevuta di Ritorno, Per… un mondo di cristallo
Un’altra band cresciuta nel florido sottobosco prog della Capitale, formata da musicisti molto giovani, all’epoca (il chitarrista Nanni Civitenga, che poi ritroveremo anche a fianco di Ennio Morricone era minorenne al momento di entrare in studio!), ma già attivi in diverse formazioni precedenti. Tema di questo disco, in forma di concept, è un classico diremmo oggi, distopico: un astronauta che, di ritorno dalle sue peregrinazioni nel cosmo trova la terra distrutta dalle bombe atomiche. Nel sestetto si fanno notare la voce di Luciano Regoli, in genere un punto debole dei gruppi prog, e sax e flauto di Damaso Grassi. La musica sembra un po’ un sunto, ben calibrato e ben allestito, di tutti i principali snodi estetici individuati dai gruppi inglesi: Gentle Giant, King Crimson, Genesis, EL&P, Nucleus. Originalità poca, dunque, ma asticella della musicalità assai in alto.

Osage Tribe, Arrow Head
Osage Tribe, o quando si mettono insieme i grandi: ad esempio un allora giovanissimo e assai motivato Franco Battiato, il bassista Bob Callero, tutt’ora attivo in ogni contesto musicale, oggi uno dei massimo specialisti dello «stick» alla Tony Levin, Nunzio «Cucciolo» Favia (sarà poi il batterista dei Dik Dik), Marco Zoccheddu, già chitarrista con Gleemen e Nuova Idea, poi collaboratore principe di Fabrizio De André. Battiato, che molto credeva nel progetto Osage Tribe, riceve una cartolina di precetto e parte per il militare, dopo aver lasciato in eredità alla band un singolo, Un falco nel cielo, e un altro brano assai sperimentale, Hajenhanhowa. Arrow Head è un disco strano e imprendibile: la base è un suono rock blues potente, sul quale si innestano mature divagazioni jazz e improvvise sortite vocali, affidate a Callero, su testi che bisognerebbe definire brillantemente allucinati. Come allora usava fare anche Battiato, appunto.

Il Paese dei Balocchi, Il Paese dei Balocchi
Un gruppo romano, come tanti altri cresciuto nella ruspante atmosfera beat, per approdare poi al progressive rock: e nella declinazione più difficile, pretenziosa e foriera di splendidi risultati, quando la matita sul pentagramma è sicura: il quartetto rock con orchestra d’archi e legni, sulla scia di «concerto grosso» barocco in rock già immaginato da Luis Bacalov. Il gruppo, forte di un organista dalle notevoli capacità tecniche come Armando Paone è qui impegnato in due suite equamente divise sulle facciate del long playing, dove vige una sorta di rabbiosa pacatezza, un mood malinconico e apparentemente senza spigoli che sembra l’avvio di un’eplosione a venire. Archi e legni, più che al barocco, sembrano alludere al Novecento storico italiano: un «trucco» che Morricone userà puntualmente nelle colonne sonore, le note dei nostri sfiorano King Crimson, Gentle Giant, New Trolls. Ancora oggi poco considerato, è da rivalutare come una delle gemme perfette del ’72 prog italiano.