La scuola ha manifestato la sua rabbia. E ieri ha finalmente portato nelle piazze delle principali città italiane la sua voce radicalmente critica nei confronti del ferale attacco che si sta profilando in Parlamento su mandato del Governo. Se passerà questo disegno di legge, la scuola della Costituzione è finita. È finita la libertà di insegnamento e, con essa, la libertà di apprendimento.

È finita la scuola che abbiamo conosciuto a partire dal dopoguerra e che ci ha trasformato in cittadini della Repubblica italiana, dell’Europa e del mondo.

La preoccupazione è fortissima e giustificata, non è frutto di un opinabile immaginario apocalittico.

Considerata la disponibilità dei maggiori sindacati a intavolare trattative che i lavoratori giudicano inammissibili e visto che in Commissione parlamentare, dove, secondo regolare iter giuridico, vengono approvate le modifiche, tutta la discussione e l’analisi è contingentata e ridotta all’accoglimento acritico dei soli emendamenti proposti da esponenti del Partito Democratico.

Che sono peggiorativi del disegno di legge stesso, se è possibile. Un solo esempio: l’articolo del DPR 275/99 che regola l’autonomia stabiliva che il piano dell’offerta formativa della scuola fosse elaborato dal collegio dei docenti sulla base delle indicazioni generali del consiglio d’istituto, tenendo in considerazione proposte e pareri formulate da genitori e studenti attraverso i loro organi di rappresentanza; il dirigente scolastico doveva solo garantirne la coerenza con gli obiettivi educativi nazionali.

Nel disegno di legge Renzi si prevedeva che il piano della scuola, triennalizzato, venisse redatto dal preside, sentiti i pareri degli organi collegiali, ridotti a mera funzione consultiva. Nel testo emendato (a firma Maria Coscia), il collegio redige il documento ma in realtà semplicemente ratificando quanto stabilito dal dirigente e lo spazio destinato alla rappresentanza di genitori e alunni non è più definito dagli ‘organismi’ – garantiti, obbligatori, conquistati con i decreti delegati del ‘74 – ma da non meglio identificate ‘associazioni’.

Di chi, è legittimo domandarsi. Forse di chi finanzierà la scuola?

Il rafforzamento dell’autonomia scolastica cui Renzi dichiara costantemente di non voler rinunciare e che costituisce il cardine del suo disegno di riforma fa esplodere tutte le contraddizioni implicite nella legge di Berlinguer, vero cavallo di troia dell’avvio della privatizzazione della scuola – come fatto culturale prima ancora che economico – nella visione e nelle scelte dei nostri decisori politici.

L’idea che la scuola sia un servizio a domanda da connettersi rigorosamente alle esigenze del territorio nasce da lì.

Anticipata da Sergio Mattarella, già ministro della Pubblica Istruzione con il VI Governo Andreotti che organizzò, nel 1990, la prima Conferenza nazionale sulla scuola in cui, discutendo di rinnovamento e riforme, veniva affrontato per la prima volta il tema dell’autonomia.

Se quella di Berlinguer è stata un’autonomia che ha frammentato irrimediabilmente il sistema, contribuendo ad accentuare quelle differenze geografiche, culturali e sociali che viceversa il mandato costituzionale chiede proprio alla scuola di cancellare, l’autonomia immaginata da Renzi consegnerà definitivamente il sistema alla condizione patologica della schizofrenia: una scuola della Repubblica finanziata dai privati, mentre lo Stato finanzia regolarmente quella privata; una scuola della Repubblica moltiplicata in centomila, a immagine e somiglianza dei suoi presidi-manager, in cui collegialità e condivisione si trasformeranno in conformismo e omologazione.