Alla fine del secolo scorso l’Unione europea ha ripetutamente proclamato di voler diventare «l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo». La «knowledge society» è stato l’obiettivo lanciato nel ‘97 dalla Commissione Europea e assunto in maniera acritica da gran parte degli attori sia sovranazionale che nazionali. Dalla Strategia di Lisbona in poi l’ambiguità di tale espressione non ha fatto che rafforzarsi: la conoscenza come fonte di profitto per investitori e grandi capitali o volano per l’inclusione sociale, la coesione culturale europea, strumento per rivoluzionare in un’ottica ecologica ed equa il modello industriale e produttivo del continente?
Questa è la prima domanda da porsi quando ci si interroga su quale sistema di istruzione si vuole per l’Europa e, quindi, quale modello di welfare studentesco e diritto allo studio. I dati relativi al diritto allo studio tra il 2000 e il 2009, che parlano di un incremento delle risorse per il sostegno finanziario degli studenti, soprattutto per gli studenti universitari, che è cresciuta percentualmente dal 13% al 17,4%, non devono trarre in inganno. Nei paesi del sud ci sono stati ingenti tagli dei finanziamenti che hanno prodotto un decremento delle risorse disponibili per le borse di studio, una restrizione del numero dei beneficiari, un aumento dei costi dei trasporti e più in generale di tutti i servizi e le prestazioni erogati. Questo ha portato, in un paese come l’Italia, ad una riduzione nell’ultimo decennio di 60 mila studenti nelle università e a tassi di abbandono scolastico praticamente invariati.
Oggi in Europa vi sono differenze profondissime: mentre in Italia si contano circa 40 mila posti alloggio per gli studenti universitari, in Germania e in Francia ci si aggira attorno ai 200 mila, nonostante una popolazione studentesca equiparabile.
Inoltre, al di là dei dati quantitativi, c’è da interrogarsi sulla qualità degli investimenti in diritto allo studio, ovvero dove essi sono stati indirizzati. Infatti, mentre nei paesi scandinavi, nel Benelux e in Germania si è puntato ad incrementare il diritto allo studio di matrice pubblica, con costruzione di case dello studente, agevolazioni sui trasporti e l’abitare, fino ad arrivare in alcuni paesi al riconoscimento di un reddito di formazione comprendente sia erogazioni monetarie che servizi; in altri paesi si è fatto strada il modello anglosassone che, a fronte di una sostanziale privatizzazione dell’istruzione e conseguente aumento delle tasse di iscrizioni, andava ad introdurre i prestiti d’onore. Tale politica non si è limitata solo all’Inghilterra ma ha trovato ampio sostegno in Italia (Riforma Gelmini) come in Spagna e altri paesi mediterranei e dell’Est Europeo.
La misura più importante per il settore del welfare studentesco sarebbe quella di introdurre forme di reddito di formazione (con borse di studio e servizi integrati) a livello continentale per livellare verso l’alto le politiche nazionali di diritto allo studio.
Un ruolo fondamentale in questa partita potrebbe essere svolto dai Fondi sociali europei (che rappresentano circa il 10% del bilancio dell’Ue). Il nuovo ciclo di assegnazione 2014-2020 può diventare cruciale per rafforzare l’infrastruttura sociale del Vecchio Continente. Le reti di welfare, l’infrastrutturazione immateriale delle reti di comunicazione e condivisione dei saperi e un vasto programma di messa in sicurezza delle scuole sono solo alcuni degli ambiti nei quali una gestione mirata e democratica dei Fse potrebbero contribuire in maniera decisiva all’innesco di quei processi di convergenza necessari per identificare il campo europeo come campo dei diritti di cittadinanza.