In tempi abbastanza brevi, per Fordham University Press, uscirà il primo libro di Ramsey McGlazer, lecturer presso l’Università di St. Andrews con un forte background in italianistica. Dal titolo Old Schools: Modernism, Education, and the Critique of Progress, il volume sviluppa il tema dell’istruzione di ieri in relazione all’idea tendenzialmente progressista di scuola di oggi.

Si tratta di un discorso che viene articolato in modo originale, attraverso l’analisi di opere derivate da arti specifiche (letteratura, cinema). Al centro di tutto, una lettura dell’istruzione come insieme di tecniche riproducibili in diversi contesti e – sul piano delle fonti – una particolare attenzione a certa cultura italiana, data la presenza di nomi come quelli di Gentile, Gramsci, Pascoli, Pasolini. Con l’autore si è cercato di mettere a fuoco alcuni punti fondamentali della sua ricerca.

Qual è la questione centrale del libro?
Il libro si occupa di quello che accade dopo la cosiddetta obsolescenza della vecchia scuola. C’è una interrogazione su questa questione: che cosa diventa l’educazione tradizionale quando le sue tecniche cadono in disgrazia? Cioè quando, in luoghi diversi e in diversi momenti della modernità, si è cominciato a ritenerle insufficientemente moderne e le si inizia a considerare non solo relitti del passato ma ostacoli al progresso, quindi dannose per gli studenti. A partire da questa situazione, si potrebbe pensare che la scuola tradizionale sia il luogo-matrice meno promettente da cui lanciare qualsiasi tipo di progetto radicale (diciamo, di sinistra), estetico o meno, ma negli esempi che analizzo – rimanendo in ambito italiano, la poesia latina di Pascoli e Salò di Pasolini – provo a mostrare come le figure associate alle varie tipologie di sperimentazione (in tempi, spazi, finalità diverse) ritornano in qualche modo a quella tradizione, provando a ri-immaginarla. Per me, questo è un modo di interrogare le potenzialità inespresse di quei passati che pensiamo di esserci lasciati alle spalle.

Sul piano pedagogico italiano, fa risalire il discorso alla contrapposizione tra Gentile e Gramsci. Può riassumere il tuo punto di vista?
Sì. Come noto, Gentile era interessato a «liberare» la scuola tradizionale dalla meccanicità dell’istruzione, rendendola più «spontanea» – più incentrata sullo studente, come si direbbe oggi. Nella sua visione, in cui si radicalizza la disuguaglianza di classe, il suo interesse rimaneva focalizzato sull’interiorità dello studente, opposta all’esteriorità dell’istruzione. Qui, allora, entra in gioco la lezione di Gramsci, che ci mette in guardia dicendoci che c’è qualcosa di fondamentalmente disonesto riguardo questa pretesa liberazione, dal momento che sconfesserebbe quella «coercizione meccanica» che è propria dell’esperienza educativa. Questa «liberazione» diventerebbe una specie di copertura che permetterebbe a chi insegna di far passare tutta una serie di mistificazioni sotto forme «ludiche» oppure pretendendo di promuovere la libertà degli studenti. In questo, ovviamente, Gramsci non difende la vecchia scuola in quanto tale, ma offre un resoconto razionale – ancora più notevole in quanto contro gli sforzi fascisti di far rivivere la romanità – delle capacità che la classe di Latino forniva, persino nonostante sé stessa. E cioè permetteva non solo lo sviluppo di capacità intellettuali ma anche quello di capacità di resistenza che potevano servire per fini contro-egemonici.

L’importanza della «coercizione meccanica» nell’istruzione dà il la alla sua scelta di analizzare determinati film. Quale tipo di pedagogia contro-egemonica possiamo estrarre dalla specificità del linguaggio cinematografico (grammatica filmica e sperimentazione)?
Mi interessa la capacità filmica di fornire una esperienza di durata che riproduce il travaglio che è l’istruzione intesa nella scuola tradizionale. In questo senso, il cinema può avvicinarsi, meglio della letteratura, ad una condizione presupposta per l’istruzione. Quando leggiamo, possiamo sempre compiere operazioni di rottura del ritmo. Sono intrinseche all’atto stesso di lettura. C’è invece qualcosa di vincolante nella visione di un film, anche solo per la forzata linearità della proiezione, al di là delle possibilità di uscire dalla sala o di usufruire delle opzioni della tecnologia, dai dischi allo streaming. C’è poi la collettività della proiezione, qualcosa che rende la situazione potenzialmente simile a quella di una classe o assemblea. Si può dire quindi che, collettivamente, affrontiamo un film il quale, a sua volta, può farci attivare resistenze simili a quelle presenti nella scuola tradizionale. Io sono interessato a queste resistenze per come si trovano nel cinema di gente come Pasolini o Glauber Rocha, di cui – nel libro – analizzo il film «romano», cioè Claro (1975). A questo proposito, il brasiliano diceva che in certe condizioni un film può «rendere il pubblico cosciente della propria miseria.» E cioè, occorre riconoscere i film di Rocha o quelli dell’ultimo Pasolini come una «imposizione», un esempio di «coercizione meccanica». Anche per Gramsci l’istruzione è una imposizione che però conosce sé stessa e, in questo, non permette la confusione progressista in cui c’è la falsa identificazione dell’educazione con la libertà e la propria realizzazione.

Nel libro lei parla appunto di Salò di Pasolini (1975). Perché questa scelta e che funzione ha nel suo discorso?
Ho a lungo evitato Salò. Poi ho cominciato a capire che aveva molto da dire sui dibattiti italiani sull’istruzione e le sue alternative. L’interesse pedagogico nel film è ovvio, viene da Sade ed è qualcosa che molta critica ha letto in relazione al Pasolini «profetico», quello che anticipa forme contemporanee di potere. Ma si può dire che il film dia anche un’altra lezione che è persino più indispensabile oggi: una lezione riguardo la persistenza e i ritorni del passato. Ci istruisce, ci chiede di sottoporci ad una esperienza, lavorando per renderci coscienti – come direbbe Rocha – della nostra stessa miseria, dove questa miseria ha tutto a che vedere con un passato che continua a ritornare nonostante i nostri sforzi di negarlo. Questo passato è fascista, sicuramente, ma è anche più in generale moderno, capitalista. Per rispondere poi su che funzione il film ha nel mio libro, direi che tutte le strade del mio discorso portano a Salò. Considero il film come il culmine della tendenza contro-progressista che il libro identifica. È certamente una denuncia, ma vale anche come provocazione più difficile e dialettica. Non è una scuola facile, questa, ma ci fa sicuramente confrontare con la difficoltà che è parte di ogni progetto contro-egemonico, la lotta che c’è in ogni sforzo per opporsi al «falso progresso» e determinare le condizioni di quello vero.