Quando la crisi è iniziata ufficialmente nove anni fa, il 15 settembre 2008 all’1,45 di notte con il crac della banca Lehmann, erano stati in pochi a prevedere uno dei suoi effetti più insidiosi: il crollo demografico. Il rapporto tra la denatalità e la crisi economica più grave della storia recente, compresa quella italiana, è stato ribadito dal report 2016 dell’Istat sulla natalità e fecondità. In otto anni le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità; solo tra il 2015 e il 2016 meno 12 mila. Nello stesso periodo sono crollati i matrimoni.

IN UN PAESE dove il rapporto tra la «nuzialità» e la natalità è molto alto, a dispetto della trasformazione dei rapporti affettivi, della crescita delle famiglie composte da persone dello stesso sesso e della «singletudine» (la condizione di chi vive da solo e non ha relazioni sentimentali stabili), il 70% delle nascite avviene nel matrimonio. Se calano questi ultimi, calano anche le altre. Negli anni della crisi i matrimoni sono passati da 283 mila del 2008 a 227 mila dell’anno scorso (-20%). Dal 2015 i matrimoni hanno ripreso ad aumentare e la soglia delle 200 mila celebrazioni è stata superata di nuovo. Al tempo della precarietà di massa la «comunione dei beni» è pur sempre una strategia di resistenza. Ma c’è una novità rispetto all’elemento «strutturale» che connota una società mediterranea, formalmente influenzata dal cattolicesimo: si continua a non fare figli, contrariamente al recente passato. E se i figli nascono, nascono fuori dal matrimonio tradizionale.

QUESTA TRASFORMAZIONE delle mentalità ha più di una spiegazione: psicologica, antropologica e critica rispetto all’idea di famiglia etero-normata e vincolata a proprietà, credito e obbedienza, la triade che per Stefano Rodotà assoggetta l’amore – e la vita delle persone – alla razionalità del «terribile diritto»: il diritto privato.

LA RILEVAZIONE si sofferma su una parte della trasformazione in corso, quella legata alla «biopolitica» della popolazione: la sua riproduzione è un valore per l’economia al punto che il singulto del Pil registrato nel 2017 (+1,5%, in crescita) sembra spiegare anche il calo relativo dei primi mesi di quest’anno rispetto al 2016: le nascite sono calate di 1500 unità rispetto alle meno 8 mila del precedente. Nella logica della statistica questo è un «ritmo» che potrebbe permettere di «chiudere» l’anno con una perdita inferiore. La vita, e la generazione, sono considerate nei termini di un bilancio d’impresa e nell’interesse della «nazione». Si parla di «trend» sia nel caso delle donne italiane che di quelle straniere residenti: le prime hanno in media 1,26 a testa (1,34 nel 2010), le seconde 1,97 (2,43 nel 2010, in calo). Da Nord a Sud si calcola anche la percentuale di «donne senza figli»: a Nord 1 su 4; poco più di 1 su 5 al centro; più di 1 su 2 al Sud e nelle isole per le nate nel 1976.

NELL’OTTICA della «biopolitica» il sottinteso è che le donne debbano avere figli e, se non li fanno, ciò è dovuto alla povertà imposta dalla crisi economica che cancella la fiducia nel futuro. E se, invece, questa situazione fosse dovuta all’esercizio della libertà della donna? Questa possibilità non traspare dagli «indici di fertilità». L’analisi Istat offre una suggestione: la stagnazione demografica delle coppie di genitori italiani può essere una delle conseguenze dell’economia dell’ indebitamento, della bassa produttività e della crescita dell’occupazione precaria che il primo decennio della crisi ci lascia in eredità.