Servirebbe un intervento da 15,5 miliardi di euro, pari all’1% del Pil, per ridurre il tasso di povertà degli italiani, ha scritto l’Istat nel rapporto annuale 2014 presentato ieri a Roma. Uno stanziamento più che doppio rispetto all’una tantum dello sgravio sull’Irpef da 80 euro mensili voluto dal governo Renzi per il lavoro dipendente fino all’aprile 2015.

Dal rapporto emerge l’esigenza di un provvedimento strutturale, cosa che il bonus elettorale di Renzi non è, per allentare la morsa della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi primari aumentata in Italia, più che altrove in Europa. Sei milioni e 300 mila senza lavoro (tra disoccupati e «lavoratori potenziali»), 1 milione 803 mila giovani tra 15-34 anni, l’occupazione femminile crollata dal 2008 al 2013 al 46,6 per cento, inferiore di 12,2 punti rispetto al valore medio dei 28 paesi dell’Unione Europea, sono i risultati della redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto, cioè dal lavoro verso le rendite finanziarie, avvenuta nei primi sei anni della grande recessione. L’esigenza di scomputare gli investimenti dal deficit per garantire uno stimolo di 150 miliardi spalmati in 5 anni (i 15,5 miliardi indicati dall’Istat entrerebbero in questo paniere) è stata la proposta avanzata da Renzi poche ore dopo il successo alle Europee.

Non è dunque un mistero per nessuno, nemmeno per il presidente del Consiglio, che la gestione restrittiva delle politiche fiscali fatta dal governo Berlusconi, e poi dalle larghe intese con Monti e Letta, abbia premiato il capitale finanziario, distrutto la domanda interna e generato una disoccupazione strutturale e di massa. Ancora ieri il ministro dell’Economia Padoan ha la soluzione assicurando che da luglio e nel semestre alla guida dell’Unione Europea, il governo cercherà di modificare i parametri europei che impediscono investimenti, crescita e occupazione. Ma nessuno ha spiegato come – e in cambio di cosa – il governo riuscirà ad ottenere le deroghe necessarie per avviare la fase «neo-keynesiana» del renzismo. In compenso, l’Istat ha steso un bilancio realistico sulle possibilità della «crescita» tanto auspicata: al netto dei rischi e delle incertezze, nel 2014 sarà dello 0,6%, dell’1% nel 2015, 1,4% nel 2016.

Percentuali difficili da rispettare con gli attuali vincoli, tanto più che la settimana scorsa l’Istat ha confermato che nel primo trimestre 2014 il Pil è addirittura negativo. È bastato questo per provocare un terremoto a piazza Affari che ha perso nello stesso giorno il 3,6%, bruciando 17,6 miliardi euro. Ciò che Renzi non dice è come recupererà i vagheggiati 150 miliardi. Lo si può dedurre dal precedente rappresentato dal bonus Irpef. Più della metà dei 10 miliardi necessari, il governo li ha recuperati tagliando 2,1 miliardi di euro nel 2014, mentre per gli enti locali il sacrificio sarà di 700 milioni per il 2014 e di oltre un miliardo nei prossimi tre anni.

Questa è la ricetta dell’«austerità espansiva», già applicata dai precedenti governi, con esiti disastrosi come dimostra il quinto capitolo del rapporto annuale dell’Istat. Con una crescita negativa tra il 2010 e il 2013 le politiche macroeconomiche restrittive hanno peggiorato le basi imponibili dei consumi, dei redditi, dell’occupazione. Il debito pubblico è aumentato al 132,6% nel 2013, facendo schizzare la spesa degli interessi sul debito, nonostante la riduzione del deficit pubblico e un saldo primario positivo al 2,2%.

La spesa pubblica in compenso è risultata stabile, 0,8% in termini nominali, nonostante l’aumento della componente per interessi. Un risultato garantito dai tagli alla spesa per il personale pubblico (-7,9 miliardi), degli investimenti fissi lordi (6,2 miliardi in meno) e dei consumi intermedi (3,3 miliardi in meno). La spending review di Renzi proseguirà in questa direzione, in attesa che gli austerici gli concedano qualcosa alle larghe intese che si preparano a Bruxelles. Il voto alla Cdu della Merkel ha dimostrato che la Germania non ha intenzione di trasferire risorse dai paesi ricchi a quelli in difficoltà.

Non depone a favore di un cambio di paradigma nemmeno il decreto Poletti sui contratti a termine. «Un provvedimento che rischia di aggravare la situazione» sostiene la Cgil secondo la quale il decreto aumenterà la precarizzazione più che negli ultimi 5 anni. Questo è l’ultimo tassello di un paese che festeggerebbe come un miracolo il restyling delle regole fiscali più restrittive. Quello che in effetti Renzi ha promesso in campagna elettorale, con poche carte da giocare al momento.