La «marcata flessione» a dicembre scorso, pari a un calo dello 0,8%, è la quarta contrazione consecutiva nella produzione industriale registrata ieri dall’Istat, la più accentuata dal 2012, quando la febbre della crisi era alta. Oggi, dicono le stime preliminari basate sui dati mensili anticipati rispetto al dato annuo che sarà diffuso a metà marzo, insieme a quelli trimestrali, siamo tornati indietro di sei anni. Dopo l’accertamento della «recessione tecnica», ovvero due trimestri consecutivi di segno negativo del Pil nel 2018, la stima potrebbe indicare un effetto di trascinamento e oscurare il primo trimestre 2019 con un segno negativo. L’Istat prospetta, inoltre, serie difficoltà di tenuta dei livelli di attività economica, dovuto al «rallentamento dell’economia internazionale» che si è prolungato «anche nell’ultima parte dello scorso anno, colpendo in particolare il settore industriale e la domanda internazionale». La crisi è emersa nell’industria dell’auto. La media annua per il 2018 si chiusa con un meno 5,9%.

IL 2019 SARÀ «BELLISSIMO», come pronosticato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ma le sue qualità estetiche sono per il momento nascoste dietro una fitta coltre di nubi. Per riprendere la corsa verso la «ripresa incredibile» nel secondo semestre, l’Italia dovrebbe crescere a ritmi cinesi o, più modestamente, dell’1,5%-2%. In attesa di coniugare il bello con l’utile, per scongiurare i temporali, il governo potrebbe promuovere a tal fine una serie di riti, con la forza dell’immaginazione che tutti ormai gli riconoscono. Rischia, però, di risvegliarsi troppo tardi per dire, di nuovo, «chi stava al governo prima di noi non ci ha affatto portato fuori dalla crisi» (Luigi Di Maio). Il problema è che, da quella crisi, non siamo mai usciti. E non basta dire che «la manovra è bella» (ancora Conte) per sperare che il tempo cambi.

SI POTREBBE LEGGERE i dati, con prudenza, per cogliere la tendenza in atto. Prendiamo sempre quelli pubblicati ieri dall’Istat sull’occupazione. Dimostrano l’effetto di sostituzione prodotto dalla crescita anemica, quella che per 14 trimestri consecutivi ha fatto, inutilmente, gonfiare il petto ai liberisti d’ordinanza del Pd, solo otto mesi fa al governo. Da un lato, i dati sembrano positivi. Ad esempio, il tasso di disoccupazione nel 2018 si è fermato al 10,6%, 0,7 in meno rispetto al 2017. Negli ultimi cinque anni, «ha mostrato una diminuzione di 1,5 punti percentuali, tornando ai livelli del 2012, ma restando ancora lontano dal minimo storico del 2007 (6,1%)».

SI DIRÀ: BENE, ma non benissimo. Ma bisogna anche capire che tipo di lavoro è aumentato, tra i 200 mila occupati annui in più nel 2018, punto più alto di una crescita dell’occupazione del 4,6%, mentre il tasso di occupazione è cresciuto di 3 punti (dal 57,9% al 58,5%), portandosi ai livelli più elevati registrati dal 2008. Nel periodo 2013-2018, «l’aumento dell’occupazione è stato trainato dalla componente dipendente (+7,3%) e in particolare da coloro che hanno una occupazione a termine che rappresentano oramai il 13,1% dell’occupazione (era il 9,9% nel 2013)» precisa l’Istat. La crisi è dunque servita a sostituire una quota importante di lavoro dipendente con quello precario. Questo è stato lo scopo del Jobs Act, del decreto Poletti sui contratti a termine e l’abolizione dell’articolo 18.

IL GOVERNO LEGA-CINQUE STELLE non ha fatto nulla per creare una contro-tendenza. Anzi, si illude ancora, con provvedimenti omeopatici come il «decreto dignità», di avere celebrato la «Waterloo del precariato». Altro brocardo memorabile di Di Maio.

«QUELLO CHE DICE l’Istat – commenta la Cgil nazionale- contraddice clamorosamente le incaute affermazioni sia del presidente del Consiglio che del ministro dello Sviluppo economico. Abbandonino i falsi ottimismi e mettano mano ad una situazione che rischia di presentare un conto assai grave». «Stiamo scivolando verso la recessione, il governo scenda dal piedistallo ed apra un confronto con il mondo del lavoro» sostiene la segretaria generale Cisl Annamaria Furlan.

«L’ITALIA SOFFRE più di altri perché da 20-30 anni manca un’idea di politica industriale – sostiene Francesca Re David, segretaria della Fiom-Cgil – Dal 2009 al 2018 sono calati del 35% gli investimenti pubblici, e ancora investe il 2% in meno degli altri paesi europei. Non c’è stata un’idea di governo e di progetto». Se del domani non c’è certezza, almeno di qualcosa possiamo essere sicuri: