Gli omaggi si moltiplicano in queste ore per onorare il cineasta Patrick Grandperret scomparso sabato scorso a Parigi. L’Arp, società dei registi e dei produttori, ricorda «l’amico gioioso e appassionato, un produttore senza pari (segnatamente per Beau Travail di Claire Denis) e un eterno viaggiatore». Tutti i principali quotidiani, da «Libération», a «Le Monde», a «Le Figaro», gli hanno riservato dei ricordi molto sinceri, e tutti danno ragione a Sylvie Pialat la quale, reagendo alla scomparsa dell’amico, ha detto: «Grandperret ha contato moltissimo per le persone che fanno cinema ».

ERA NATO subito dopo la guerra, in un comune nei pressi di Parigi, Saint-Maur-des-Fossés in Val de Marne, uno di quei posti dove i parigini andavano a passare la domenica, per una gita in barca o per ballare in una guinguette, come ne La bella brigata di Duvivier. La famiglia lo avrebbe voluto contabile o commerciante, lui invece molla gli studi e si dà alla fotografia. Il Sessantotto lo trova così, già pronto per la rivolta. Allo spirito dell’anno per eccellenza, Grandperret rimane sempre fedele. «Non perdono chi ha girato le spalle al Sessantotto» dice in una delle sue ultime interviste. Al cinema entra come assistente, con dei compagni di strada più vecchi di lui ma che ne condividono lo spirito libertario e anarchico: Claude Faraldo e Maurice Pialat (su Fai la maturità prima e su Loulou). Il suo primo film è un documentario sulla moto, quando essere centauri era ancora parte di una vita ribelle. Secoli fa.

PER MOLTI Grandperret era il regista di Mona et Moi, il suo primo lungometraggio di finzione girato nel 1989, che ottiene il prestigioso prix Jean Vigo l’anno successivo. Un film poetico e selvaggio, interpretato da un giovanissimo Denis Lavant, reduce da Rosso sangue ma non ancora star internazionale di Gli amanti del Pont-Neuf, in un ruolo che si diceva ispirato alla vera vita, assolutamente spericolata, dell’amico Simon Reggiani – figlio dell’attore Sergio, attore e regista a sua volta. Nel cinema Grandperret resta fotografo e Mona et Moi è in effetti il film d’un regista che, pur mettendo in scena la vita, cerca soprattutto di fermarla, di coglierne l’istantanea. 

In questo caso è il canto del cigno della bohème parigina, che nel punk trova una sua ultima maschera, non meno sontuosa, non meno generosa, non meno melodrammatica, e senza dubbio altrettanto folgorante di quelle del passato. Grandperret non era un iconoclasta. Al contrario, i suoi film sono da un certo punto di vista tradizionali. Essi ereditano le storie di Jules et Jim, del Selvaggio, di Gioventù bruciata… Non perché il suo cinema senta il bisogno di iscriversi dentro una filiazione. Ma perché in quelle storie c’è una verità e una bellezza che Grandperret ritrova miracolosamente nei propri personaggi.

Sia nei più iconici, come il chitarrista Johnny Thunders (che recita il proprio ruolo in Mona et Moi). Sia in quelli che, pur non conoscendo alcuna ribalta, vivono fino in fondo un destino altrettanto rock, come Nina e Lizzy, le due sbandate di Meurtrières, il suo ultimo lungometraggio del 2006 adattato su una sceneggiatura dello stesso Pialat.
Per altri Grandperret era il cineasta dell’Enfant lion, primo capitolo di un dittico africano (l’altro è Le Maître des Elephants) tratto da un romanzo di René Guillot. Girato in maniera avventurosa, ma con grande generosità, la storia del piccolo Oulé e di una leonessa è un successo popolare. Il primo e l’ultimo di Grandperret, che in seguito lavora per la televisione o come insegnante alla Femis.

IN TUTTO ha girato sette film. Pochi per un cineasta. Molti per un cineasta lontano da ogni industria, compresa quella del cinéma d’auteur. Grandperret invece moltiplica le participazioni, come attore, come produttore, come amico. Scorrendone la carriera si percepisce meno una linea che una rete di relazioni di lavoro e di amicizie: il già citato Pialat, Claire Denis, Denis Lavant, il cineasta Stevenin, e molti altri con i quali sentiva di voler lavorare. L’ultima di queste collaborazioni è con la figlia Emilie, che aveva già ispirato l’avventura africana e con la quale realizza nel 2016 un’ultima favola poetica: Fui Blanquero. Senza Grandperret, il mondo è un po’ meno punk.