Quando si giunge ad Antrepo 3, sede principale della 13/ma Biennale di Istanbul, ex deposito doganale e ora luogo tradizionale per l’arte a ridosso del Bosforo, immediatamente si percepisce che la città sta subendo un attacco. Il primo viene dall’acqua, da quei mostri galleggianti che sono le navi da crociera, anche qui così ingombranti da sfiorare i palazzi e negare l’apertura dello sguardo verso l’orizzonte; il secondo, più subdolo, viene terra. Come recita il tema scelto da Fulya Erdemci, la curatrice della rassegna di quest’anno, Mom Am I a Barbarian? – un’indagine sulle trasformazioni urbane e il potere degli spazi pubblici – sulla vecchia Costantinopoli gravano le spinte aggressive della speculazione immobiliare che accelerano l’abbattimento di antichi edifici per introdurre spazi più commerciali nello skyline. La stessa sede principale della mostra verrà utilizzata per l’ultima volta: come Gezi Park, è stato ritenuto «adatto» a ospitare uno shopping center. Se si pensa che, proprio lì accanto, l’Antrepo 4 custodisce il Modern Museum, si comprende quale operazione di smembramento aleggi su quell’isola culturale. L’allarme al visitatore ignaro lo lancia l’artista turco Ayse Erkmen: un’enorme palla verde tenuta da una altrettanto gigantesca gru batte sul muro dell’edificio, a ricordare la demolizione prossima ventura (Bangbangbang, 2013). È il primo intervento critico dell’arte riguardo la gentrificazione che si sta impossessando di Istanbul e delle sue acque (per esempio, il progetto fortemente voluto da Erdogan di «Kanal Istanbul», un Bosforo bis, una vera e propria autostrada liquida), cui ne seguiranno molti altri sparsi in tutte le location della Biennale – la scuola greca di Galata, il Salt Beyoglu, l’Ater e il 5533.

Nonostante il dibattito acceso e i contrasti con il movimento Gezi Park – le istanze sono le stesse, ma le modalità di «lotta» differenti – l’esposizione internazionale nella sua prima settimana di apertura ha già visto passare un flusso ininterrotto di circa settantamila persone. Un pubblico costituito per il 90% da giovani e giovanissimi, studenti soprattutto e non importa se squattrinati perché qui l’entrata è gratuita. Nel weekend scorso, ognuno stringeva al petto la sua copia di catalogo: cinque lire turche, due euro, un prezzo politico. Se si prova a immaginare il tipico visitatore italiano delle mostre, la sua età, l’appartenenza sociale, il costo del biglietto più del catalogo, si capisce l’enorme divario e pure che il futuro sta andando da un’altra parte.

Una volta varcata la soglia della Biennale, bisognerà scavalcare con lo sguardo il primo ostacolo visivo: un grande muro di mattoni eretto da Jorge Mendez Blake. Sembra insormontabile quella barriera, un confine che protegge e contemporaneamente isola. Al suo centro, però, ha una imperfezione, una piccola crepa che si è formata a causa di un libro: Il castello di Franz Kafka regge (e sbriciola) l’arroccamento difensivo. Viene dal Messico Mendez Blake, il paese che più è investito dalle politiche di esclusione americane; il muro in lamiera che si snoda lungo Tijuana e San Diego è anche la parete che ospita tremila croci improvvisate, un memorial dove poter ricordare i tanti clandestini uccisi.

Lo spregio dei diritti acquisiti su un territorio in nome del profitto viene restituito, con ironia, da una delle opere più suggestive della Biennale: The Equitable Principle è il filmato in cui i due artisti rumeni Anca Benera e Arnold Estefan raccontano una storia di soprusi (nei loro lavori, affrontano spesso le verità accettate collettivamente per smascherarne i meccanismi di inganno). Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il loro paese ha combattuto con l’Ucraina per il possesso della Snake Island, un isolotto roccioso che non avrebbe destato nessun interesse se non fosse per le riserve di gas e petrolio. La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 2009 decise di tracciare una linea equidistante tra le coste ucraine e rumene; assegnò la sovranità all’Ucraina e il 79,34% del triangolo sottomarino che circonda l’isola alla Romania. Ma le multinazionali non aspettarono la risoluzione del caso e si assicurarono le loro basi petrolifere, senza chiedere nessun permesso. Benera e Estefan riprendono i fili dell’oscura vicenda. Tagliano una porzione del Mar Nero ghiacciato che corrisponde all’unità di territorio che ogni cittadino rumeno avrebbe avuto e compiono la medesima azione nella zona di Snake Island. Così, da una parte, ciò che è stato perduto viene simbolicamente recuperato (0,509 mq di terra pro capite); d’altra, ciò che è stato guadagnato (mare) torna a evaporare con il ghiaccio che si scioglie.

Se la Biennale propone un focus sulle metamorfosi delle città, gli artisti prima seppelliscono con un corteo funebre le promesse di democrazia (come nel fantastico video Los Encargados di Jorge Galindo e Santiago Sierra, dove le icone del post-franchismo sfilano, in un macabro bianco e nero, tutte a testa in giù), poi si interrogano su chi verrà fatto fuori e non sarà un soggetto previsto nelle tabelle di marcia dei programmi governativi. Ai margini, vivono come degli invisibili i migranti e le comunità povere di Lima. Il peruviano Edi Hirose restituisce loro una scena con la serie fotografica Expansión: a fronte dei progetti architettonici ecosostenibili e delle modificazioni del panorama urbano, un numero impressionante di individui ha come luogo di vita una distesa per la morte: il cimitero di Nueva Esperanza, il secondo più grande al mondo. Qui si incontrano, ridono, mangiano pregano e fanno l’amore. Sono «scarti umani», rifiuti, come quelli che vengono spazzati via dal vento e da suoni cacofonici nel video dei brasiliani Cinthia Marcelle e il filmmaker Tiago Mata Machado. Si chiama The Century: similmente al muro messicano, è posto all’inizio del percorso e presenta una Storia deantropomorfizzata, che si è trasformata in una desolata discarica di scorie.

Rossella Biscotti (Molfetta, 1978, vive a Amsterdam) è l’unica presenza italiana a Istanbul. Interessata alle implicazioni politiche dell’arte, ogni sua installazione è un potente antidoto contro la narcolessi della coscienza. Stavolta, prende in esame una istituzione totale come il carcere e ambienta il suo video sull’isola di Santo Stefano. In quella prigione, fedele alle regole del panopticon descritte dal filosofo e giurista Jeremy Bentham nel 1791, sono passati migliaia di detenuti, spesso intellettuali, anarchici, dissidenti.

«Mi interessava soprattutto la sua assonanza con il teatro dell’opera San Carlo di Napoli – spiega l’artista -. Per leggere quell’archeologia penitenziaria in maniera contemporanea, mi sono fatta accompagnare da Nicola Valentino, che aveva pubblicato per Sensibili alle foglie il libro Ergastolo. Dopo aver visitato l’edificio, abbiamo scoperto il cimitero e immaginato una sorta di ‘pellegrinaggio’ annuale al cimitero, coinvolgendo le associazioni di detenuti». Un fiore rituale, in omaggio a chi dalla cella non è mai più uscito.

L’esclusione dell’«altro» (barbaro) passa anche per distruzione totale e la cancellazione di luoghi storici o interi paesi. È il caso sollevato da Hanna Farah Kufr Birim (Alijsh, 1960). In Distorted narra la scomparsa di Kufr Birim (l’artista ne ha assunto legalmente il nome), villaggio palestinese vicino ai confini libanesi, occupato da Israele nel 1948 e raso al suolo nel 1953. È da lì che proviene la sua famiglia, costretta all’esilio e a vivere in un campo per rifugiati nella Galilea: in una fotografia, Hanna Farah regge con la testa un arco instabile, rovina rimasta in piedi di quel passato culturale e sociale dove affondano le sue radici identitarie. Con l’unica cosa che possiede – il suo corpo – puntella la memoria, in una sfida di resistenza fisica e psicologica.