Non l’hanno presa bene al centro commerciale di Mamilla, davanti alle mura della città vecchia di Gerusalemme. Sbuffano proprietari e commessi dei negozi di lusso di questa zona sempre affollata di clienti. «Lo capisco, c’è il coronavirus ma un secondo lockdown non ci voleva proprio» si lamenta Ofer mentre rimette sullo scaffale un paio di jeans. «Sono uno studente – aggiunge – e ho bisogno di lavorare per pagarmi gli studi. Questo negozio chiuderà la prossima settimana e non è detto che il proprietario sarà disposto a riprendermi quando riaprirà». Simili le considerazioni di altri lavoratori. Al centro dei discorsi c’è l’economia e i danni che subirà per la chiusura totale del paese. Si teme un nuovo forte aumento della disoccupazione (salita tra marzo e aprile al 25%). Ieri l’Associazione degli imprenditori e la Camera di Commercio hanno avvertito il premier Netanyahu che il nuovo blocco nazionale si rivelerà un disastro. Molte aziende addirittura minacciano di non rispettare la chiusura. «La fame farà più vittime del Covid-19», ripetono tanti quasi in coro.

 

Invece tanti altri israeliani sono contenti. Finalmente, dicono, il governo Netanyahu si è deciso – si attende però il via libera definitivo dalla riunione di governo prevista domani – ad attuare l’unico provvedimento che, a questo punto, può contenere la diffusione del contagio. E denunciano il comportamento «irresponsabile», dopo il lockdown di marzo e aprile, di un gran numero di persone: mascherine abbassate sotto il mento, assembramenti, mancato rispetto del distanziamento. Il più preso di mira comunque è il primo ministro. Netanyahu è accusato di aver riaperto subito tutto il paese dopo la prima ondata della pandemia. Anche le scuole, già a metà maggio, da dove è poi ripartito il contagio che ora tocca numeri mai visti in primavera, quando il coronavirus aveva fatto danni limitati. Più di tutto a Netanyahu viene rimproverato di aver dato troppo peso alle lamentele dei leader religiosi, di alcuni suoi ministri e di vari settori dell’economia. Non avrebbe adottato al momento giusto le misure di contenimento del virus che indicavano gli esperti del ministero della sanità e che avrebbero potuto salvare molte vite umane. Dei 1077 israeliani morti dall’inizio della pandemia, due terzi sono deceduti negli ultimi due mesi.

 

Netanyahu che sino a qualche giorno fa si vantava di aver «salvato l’economia» riaprendo subito il paese dopo la prima ondata del coronavirus, alla fine ha ceduto. O così pare. Firmerà il nuovo lockdown provocando più danni rispetto a quelli che l’economia del paese avrebbe patito con una riapertura più cauta e ragionata tra maggio e giugno. I numeri drammatici della pandemia non gli lasciano scelta. I casi positivi di coronavirus registrati ieri in Israele sono stati 4217, e fanno salire a oltre 150mila le persone contagiate dallo scorso marzo. I malati al momento sono 33.920, dei quali 982 ricoverati negli ospedali. I pazienti molto gravi sono 489: erano 419 una settimana fa. Israele è ai primi posti al mondo per numero di contagi in rapporto alla popolazione. Diversi ospedali avvertono di aver raggiunto un livello di guardia nei dipartimenti per il coronavirus, specialmente nelle zone più colpite dalla pandemia: le città popolate da religiosi ortodossi e i centri abitati arabi in Galilea. Tra gli ultraortodossi la percentuale di tamponi positivi è stata del 16% negli ultimi giorni; tra i cittadini arabi, l’11 per cento; e tra il resto della popolazione, il 6 per cento.

 

L’inizio del lockdown dovrebbe cominciare mercoledì o giovedì, al ritorno di Netanyahu da Washington. Nella prima fase durerà due settimane e riguarderà la festa di Rosh ha-Shanà (il Capodanno ebraico) e il Kippur. Sarà quindi allentato gradualmente in due fasi successive. Gli israeliani non potranno allontanarsi dalle proprie abitazioni per oltre 500 metri. Le scuole saranno chiuse e così le attività commerciali non indispensabili. Criticando l’indecisione del governo, il quotidiano Haaretz ha scritto che «Israele stava scivolando in un controverso e rischioso esperimento volto a raggiungere l’immunità di gregge. In questo caso è un’immunità di gregge senza un pastore».