Ieri Khaled Meshaal, leader del politburo di Hamas, ha confermato i negoziati in corso con Israele per una tregua di lungo periodo. Una dichiarazione che smentisce quanto ribadito pochi giorni fa dal primo ministro israeliano: Tel Aviv «non tiene alcun meeting con Hamas né direttamente né tramite intermediari».

Se Hamas dovesse finire fuori dai giochi dell’aperto conflitto con Israele, con l’Iran che gode di nuova legittimazione internazionale in seguito all’accordo di Vienna, Tel Aviv rischia di restare senza nemici contro i quali intessere le fitte trame della propaganda di “Stato sotto assedio”.

Ed ecco che a tornare in auge è la Siria. Non certo da sola: negli ultimi due giorni il fuoco incrociato al confine israelo-siriano ha rimesso a ribollire nel gran calderone tutti gli storici avversari di Tel Aviv, da Bashar al-Assad ai gruppi armati palestinesi fino a, com’è ovvio, Teheran.

Giovedì missili lanciati dal sud della Siria sono caduti in Galilea. Immediata la risposta: l’esercito israeliano giovedì sera e di nuovo ieri ha aperto il fuoco almeno 15 volte con artiglieria pesante e droni contro la zona di Quneitra, valico tra i due paesi. Diverse le versioni dei fatti: secondo la tv di Stato siriana, un raid ha colpito un’automobile civile vicino ad un mercato nel villaggio di Kom, uccidendo 5 persone. L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, organizzazione anti-Assad, ha invece identificato le vittime come membri delle Forze di Difesa Nazionale, vicine a Damasco.

E secondo Tel Aviv? Il raid ha avuto come target «la cellula terroristica responsabile del lancio di razzi», ovvero 5 palestinesi della Jihad Islamica guidata e finanziata (secondo Israele) dall’Iran: l’attacco sarebbe stato orchestrato da Saed Izzadhi, capo dell’unità palestinese delle Guardie Rivoluzionarie di Teheran. La Jihad Islamica si è affrettata a negare il proprio coinvolgimento: «Resistiamo solo su terra palestinese», ha detto Muhammad al-Hind, tra i leader a Gaza, seguito a ruota dal portavoce Shihab che accusa Israele di «rimescolare le carte» per giustificare una nuova offensiva.

Da parte israeliana il vortice di accuse diverse ha generato non poca confusione. Alla fine, per Tel Aviv la colpa è di tutto il fronte anti-Israele. Perché, ribadisce il governo israeliano, anche «la Siria è responsabile e ne pagherà il prezzo». A poco servono le dichiarazioni “pacifiche” del bellicoso Netanyahu («Non abbiamo alcuna intenzione di avviare un’escalation»): non è la prima volta che Israele prende parte direttamente e indirettamente alla guerra civile siriana, o con attacchi mirati a combattenti di Hezbollah schierati al fianco di Assad o sostenendo i ribelli a sud, curandoli nei propri ospedali e fornendo supporto logistico.

La possibilità di un maggiore coinvolgimento in Siria troverebbe conferma nella visita di pochi giorni fa del premier Netanyahu e del ministro della Difesa Ya’alon alla frontiera nord e nelle voci che girano negli ambienti governativi sull’esistenza di un piano militare per un’operazione in Siria nel caso di escalation.

Israele non può restare scoperto. Non può restare senza nemici. E vista la totale assenza di minacce da parte di gruppi islamisti come Isis e al-Nusra, il timore che si apra un fronte al confine nord non è campato in aria. Soprattutto in vista del voto del Congresso Usa, il prossimo mese, sull’accordo tra 5+1 e Repubblica degli Ayatollah: il sempre spendibile fantasma della minaccia iraniana potrebbe favorire la lobby israeliana tra i parlamentari Usa, divisi sul sì e il no al negoziato fortemente voluto dal presidente Obama.