Sono bombe che piacciono molto ai fanatici, come quelli dell’Isis, ma che potrebbero essere usate in determinate circostanze anche da uno Stato vero e proprio contro i suoi avversari. Parliamo delle cosiddette “bombe sporche”, armi pensate per spargere materiale radioattivo, utilizzando esplosivi convenzionali. Non sono vere armi nucleari, ne’ hanno lo stesso potere distruttivo, in ogni caso sono pericolose. Israele le ha testate per quattro anni, nel deserto del Neghev, nel quadro del progetto “Campo Verde”, a breve distanza dalla centrale nucleare di Dimona dove, secondo esperti internazionali, produrrebbe il plutonio per il suo arsenale atomico segreto. Lo ha scritto un paio di giorni fa il quotidiano Haaretz e le sue rivelazioni non sono state confermate ma neppure smentite da fonti ufficiali. Nessuno inoltre ha sentito il dovere di rassicurare la popolazione civile, tenuta per anni all’oscuro di tutto.

 

Dal 2010 sono stati eseguiti nel Neghev una ventina di test, “di carattere difensivo”, ha precisato Haaretz, volti a verificare gli effetti delle esplosioni delle “bombe sporche”. Gli ordigni più piccoli erano di 250 grammi e quelli più grandi di 25 chilogrammi. Le detonazioni sono avvenute in zone aperte e in ambienti chiusi. In alcuni casi il materiale radioattivo è rimasto abbandonato sul terreno, in modo da accertare, nel corso del tempo, la diffusione e l’intensità delle radiazioni. In un altro caso gli scenziati israeliani hanno provato a verificare se fosse possibile disperdere il materiale radioattivo misto ad acqua nel sistema di ventilazione di un edificio. Esperimenti rischiosi per il quale è stato usato il Technetium 99m, perchè facilmente rilevabile dai sensori e per la sua rarefazione rapida. A monitorare le detonazioni sono stati piccoli droni. Dopo quattro anni di esperimenti, ha concluso Haaretz, la sensazione è stata che l’esplosione di “bombe sporche” in zone aperte ha un impatto soprattutto psicologico sulla popolazione mentre in un ambiente chiuso potrebbe provocare una contaminazione seria e i successivi lavori di bonifica richiederebbero un lungo periodo.

 

Da un lato, stando al resoconto fatto da Haaretz, gli esperimenti hanno avuto un carattere difensivo, per la protezione dei civili di fronte alle minacce lanciate da gruppi terroristici. Dall’altro non è affatto escluso l’impiego delle “bombe sporche” anche da parte delle forze armate di uno Stato. Ad esempio, un attacco all’Iran con questo tipo di armi, oltre a quelle convenzionali, contro siti di ricerca e basi militari, ossia ambienti chiusi, avrebbe il risultato di rendere inutilizzabili per un lungo periodo edifici e strutture di importanza strategica. D’altronde negli stessi anni in cui nel Neghev si sperimentavano gli effetti delle “bombe sporche”, il governo israeliano, anche allora guidato da Benyamin Netanyahu, era sul punto di lanciare un attacco contro le centrali atomiche iraniane. La vicenda è ritornata alla ribalta proprio nelle ultime ore, in occasione di un dibattito alla conferenza annuale negli Stati Uniti del giornale israeliano The Jerusalem Post, quando la editorialista ultranazionalista Caroline Glick, ha accusato frontalmente l’ex capo del Mossad Meir Dagan e l’ex capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi di aver respinto l’ordine ricevuto dal primo ministro di preparare e attuare entro un mese un raid militare contro gli impianti atomici iraniani.

 

Il fatto che l’Iran e le potenze del 5+1 (i membri permanenti del CdS dell’Onu più la Germania) siano vicini ad un’intesa sul nucleare – attesa per la fine del mese – non ha in alcun modo spinto il governo Netanyahu a chiudere in un cassetto i piani di attacco israeliani. E nel contesto dei contatti al livello più alto sulle questioni regionali, gli Stati Uniti hanno inviato in Israele il capo dello stato maggiore congiunto Martin Dempsey e il capo della Cia John Brennan. Dempsey è arrivato un paio di giorni fa, su invito dell’omologo israeliano Gadi Eisenkot. Brennan invece ha compiuto la scorsa settimana una missione segreta durante la quale è stato ricevuto da Netanyahu.