Risale la curva dei contagi in Israele che appena una decina di giorni fa era scesa al punto più basso dall’inizio della pandemia che nello Stato ebraico ha fatto ammalare 17mila persone (in buona parte in modo lieve) e provocato 290 decessi. Focolai dell’infezione sono divampati in particolare in alcune scuole di Gerusalemme, Beersheva e di vari centri abitati del sud del paese. Più di 7.500 studenti e insegnanti sono stati messi in quarantena, di cui 2.500 solo tra martedì e mercoledì quando sono stati accertati 255 contagi e altre sette scuole sono state chiuse portando il totale a 43. La situazione più preoccupante è quella dell’istituto Gymnasia Rehavia di Gerusalemme con 173 persone, tra ragazzi, insegnanti e personale amministrativo, risultate positive al tampone. A circa 700 studenti della Ulpana Tzvia è stato ordinato di andare in isolamento per almeno una settimana. A Tel Aviv l’istituto Galil è tornato all’insegnamento da remoto dopo che uno studente è risultato positivo. Colpite dal contagio anche diverse scuole nelle comunità beduine, sempre nel sud di Israele.

 

Non pochi sostengono che la riapertura del paese dopo il lockdown parziale o totale osservato a marzo e aprile (con alcuni giorni di vero e proprio coprifuoco) sarebbe stata troppo rapida sotto la pressione del tonfo dell’economia che nei primi quattro mesi del 2020 ha fatto segnare una contrazione del 7,1% e livelli di disoccupazione superiori al 20% mai registrati negli ultimi decenni. Così le fasi 2 e 3 nel mese di maggio di fatto si sono accavallate, con una porzione della popolazione che ha percepito la fine della fase più acuta della crisi sanitaria come un via libera al ritorno alla piena normalità. Tanti hanno cominciato a non indossare più la mascherina in strada o a portarla inutilmente sotto il mento. Il distanziamento sociale si è fatto più blando e ristoranti, pub e locali pubblici sono tornati ad affollarsi con scarso rispetto da parte dei clienti delle misure di precauzione ribadite dal governo e dal ministero della sanità. Un clima che lo stesso premier Netanyahu, lo scorso fine settimana, ha condannato avvertendo che il paese rischia un secondo lockdown.

 

Resta di difficile comprensione la decisione del nuovo governo, in carica dalla metà di maggio, di riaprire completamente le scuole e di continuare a tenerle aperte di fronte ai contagi in rapido aumento che si registrano in questi ultimi giorni tra studenti e insegnanti. Gruppi di genitori contestano il nuovo ministro dell’istruzione, Yoav Galant, che esclude – con l’appoggio di Netanyahu – di poter richiudere le scuole sebbene manchino pochi giorni alla fine dell’anno scolastico. La paura del contagio ha spinto non pochi genitori a non mandare i figli a scuola nella speranza che il governo faccia marcia indietro e adotti misure vicine a quelle decise nei mesi scorsi nelle cittadine e nei quartieri popolati da ebrei ultraortodossi, risultati i più colpiti dall’ondata di coronavirus.

 

Intanto cinque nuovi positivi al tampone si registrano anche a Gaza, ancora tra palestinesi rientrati dall’estero attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Ma nel piccolo territorio palestinese la situazione resta sotto controllo contro tutte le previsioni della vigilia. In totale i contagi accertati sono stati sino ad oggi 66 (1 decesso) e le autorità sanitarie locali ieri hanno autorizzato la riapertura di tutte le moschee che erano state chiuse oltre due mesi fa. Le scuole invece restano chiuse, come in Cisgiordania dove si sono registrati in totale 554 positivi (il dato include anche quelli a Gerusalemme Est) e quattro morti.