Sono salite ieri a 12.200 le infezioni da Covid-19 in Israele. I decessi sono stati sino ad oggi 126. La diffusione del virus però rallenta rispetto ai giorni scorsi. E si parla di una “Fase 2” e della ripresa parziale di una serie di attività economiche dopo il lock down ordinato dal governo, in particolare durante la Pasqua ebraica.

È sempre “Fase 1” invece nei quartieri di Gerusalemme e nelle cittadine (e alcuni insediamenti coloniali) abitate da religiosi ebrei ultraortodossi dove la percentuale dei contagi è alta. Ma ora emergono anche insidiosi focolai dell’infezione in diverse cittadine arabe in Galilea come Deir al Assad, Jisr az-Zarqa, Daburiyya, Um al-Fahm, Baqa al Gharbiyye e Tamra.

«Questo aumento dei contagi è dovuto al fatto che, finalmente, il governo e il ministero della sanità hanno provveduto ad effettuare un numero significativo di tamponi anche nei nostri centri abitati» ci spiega il deputato Mtanes Shihade, segretario del partito Balad/Tajammo, parte della Lista unita araba.

«Paradossalmente il quadro è migliore rispetto a qualche settimana fa anche se ci sono 500 contagi accertati tra i cittadini palestinesi (di Israele)» aggiunge Shihade «quando è l’epidemia si è diffusa, il ministero della sanità e le autorità hanno dimenticato gli arabi (20% della popolazione, ndr). Tutti i provvedimenti ufficiali e le istruzioni per prevenire il contagio sono stati diffusi solo in lingua ebraica e non anche in arabo».

Le cose, prosegue il deputato, «sono cambiate dopo il nostro intervento e le proteste di alcune ong. Ora c’è un coordinamento consolidato con il Magen David Adom (l’equivalente israeliano della Croce Rossa, ndr) e sono stati aperti anche nei nostri centri abitati punti dove effettuare i tamponi in auto. Comunque abbiamo perduto settimane preziose, anche in questo caso è stato dimostrato che in Israele i cittadini arabi vengono sempre dopo gli altri».

Yusef Jabarin, un altro deputato, riferisce che gli arabi rappresentano solo il 10% di tutti gli israeliani sottoposti al tampone dall’inizio dell’emergenza sanitaria.

Da settimane, l’ong Adalah di Haifa denuncia la «discriminazione sanitaria» nei confronti della minoranza araba. E con petizioni presentate alla Corte suprema sta cercando di garantire piena assistenza anche ai villaggi beduini nel Neghev non riconosciuti dallo Stato e, di conseguenza, abbandonati a se stessi, nonostante il numero significativo di positivi ai virus accertati nelle regioni meridionali, in particolare nelle città di Bersheeva e Rahat.

«A quanto pare la risposta dello Stato è lenta quando il coronavirus penetra nelle comunità arabe», commenta l’avvocato di Adalah, Sawsan Zaher. L’ong nelle scorse settimane ha denunciato inoltre il disinteresse delle autorità verso gli abitanti di Gerusalemme Est – sono 80 i contagi registrati solo negli ultimi due giorni nei quartieri di Silwan, al Thawri Beit Hanina, Sur Baher e la città vecchia – e gli ospedali palestinesi della città. Critiche sono giunte anche dal sindaco Moshe Leon.

 

L’attenzione è aumentata negli ultimi giorni ma resta ancora senza una via d’uscita la situazione dei 150mila palestinesi di Gerusalemme «dall’altra parte del Muro». Si tratta degli abitanti del campo profughi di Shuaffat, di Kufr Aqab e di altre aree arabe rimaste divise da Gerusalemme quando Israele ha ultimato la «barriera di separazione» tra la città e la Cisgiordania. Sono residenti ufficiali di Gerusalemme, pagano le tasse, e, pertanto, posti sotto l’autorità e la responsabilità di Israele. Tuttavia da anni per le autorità israeliane quei palestinesi sono «fuori», cioè esclusi da Gerusalemme. Qualche tempo fa si è parlato di piani per «cederli amministrativamente» all’Autorità Nazionale di Abu Mazen, in modo da ridurre il numero dei palestinesi nella città santa: circa 350mila secondo stime non ufficiali, quasi il 40% degli abitanti anche se per le autorità comunali sarebbero poco più del 30%.