In questi giorni sento la mancanza di persone, care anche al manifesto, con le quali in periodi come questi avremmo condiviso sentimenti di rabbia e di dolore, discussioni anche animate, e piazze: Giorgio Forti, Paolo Amati (co-fondatori della Rete Ebrei Contro l’Occupazione), Daniel Amit (compagno israeliano sostenitore del movimento dei refusenik) e l’artista e attivista Ronit Dovrat.

So che su una cosa saremmo stati d’accordo: i danni a ogni possibile prospettiva di soluzione pacifica causati da questa «operazione» con la quale Nethanyahu afferma di voler andare avanti fino quando «il suo obiettivo sarà raggiunto, riportare pace e sicurezza a voi, cittadini d’Israele» diventano ogni minuto più gravi e irreparabili.

E molto ci sarebbe da dire sul fatto che ci sono cittadini di Israele (pochi a dire il vero) che hanno una concezione di pace e sicurezza ben diversa da Nethanyahu, che hanno rifiutato o rifiuteranno il richiamo alle armi; sul fatto che ci sono cittadini di Israele per i quali il concetto di pace e sicurezza di Nethanyahu significa da sempre vivere come cittadini di serie B in un regime di Apartheid e attualmente di repressione durissima e rischio di licenziamento per lo sciopero generale contro i bombardamenti su Gaza.

Sabato scorso in piazza ho visto un cartello con scritto «Ma gli ebrei democratici e antirazzisti esistono ancora? Perché non parlano?». Eppure esistiamo. E parliamo. Invano. Da tanto tempo.

E allora forse varrebbe la pena interrogarsi su chi in questi anni invece non ha parlato o ha parlato troppo e male, sui danni che sono stati fatti alla causa del popolo palestinese. Perché se così non fosse, probabilmente sabato alla manifestazione a Piazza Esquilino non avrei visto bandiere turche, nelle manifestazioni in Germania (e in altri Paesi nordeuropei) non ci sarebbero i fascisti dei Lupi Grigi (che aggrediscono attivisti curdi che vogliono portare solidarietà) che dopo incendiano sinagoghe.

E a livello internazionale non ci sarebbero solo personaggi come l’autocrate fascista Erdogan (o re Mohammed VI del Marocco), che a casa loro in quanto a violazioni dei diritti umani e a negazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli non si fanno certo guardare dietro, personaggi che secondo il nostro governo sono comunque utili perché comunque le armi che facciamo, a qualcuno toccherà pur venderle, e che importa se poi vengono usate per commettere crimini di guerra e colpire civili?

E poi come dimenticare che Erdogan in fondo, oltre a comprarci le armi (e tanta altra roba) ci tiene fuori dai piedi i profughi. E a chi importa se poi li insedia in Rojava, magari a Afrin o Serekaniye, nei territori dai quali è stata espulsa la popolazione curda, riprendendo l’antica politica della «cintura araba» in Siria, e di quali conseguenze il suo operato potrà avere in prospettiva in termini di destabilizzazione dell’intero Medio Oriente per poter così creare le basi per il suo sogno neo-ottomano?

Non so cosa avrebbero detto di tutto questo Spinoza, Benjamin e Sholem e francamente me ne importa anche poco. Il dato di fatto è che siamo di fronte a un disastro umanitario, umano e politico.

Personalmente penso che l’unica possibilità di soluzione per il Medio Oriente sia il confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Öcalan, che oggi donne e uomini coraggiosi – nonostante la situazione di guerra – praticano in Rojava e nello Shengal.

Sono però anche convinta che le condizioni per realizzarlo in Israele e Palestina siano pressoché inesistenti, perché nessuna delle due parti non solo non crede in una prospettiva del genere, ma in buona parte fa consapevolmente o inconsapevolmente di tutto perché una convivenza pacifica nel reciproco rispetto non si possa realizzare né ora e né mai. E finché avranno la parola solo il desiderio di sangue e di vendetta di chi ha a cuore unicamente la propria supremazia, non muoiono solo le persone, ma anche la speranza.

E con questi presupposti, qualsiasi situazione di conflitto è irrisolvibile. A produrre questo siamo stati anche noi, me compresa, ma non perché non ho alzato la mia voce in quanto ebrea per dire «non in mio nome», come in questi giorni hanno ancora una volta fatto delle e dei giovani cui va il mio profondo rispetto.

Siamo stati tutti noi che non ci siamo mobilitati con maggiore forza e determinazione per impedire che il popolo palestinese restasse abbandonato a sé stesso e a una leadership inconsistente e priva di credibilità in Cisgiordania, e a Gaza a una di impostazione religiosa di cui non condivido una singola parola o azione (e che pure, essendo democraticamente eletta, deve essere riconosciuta come legittimo interlocutore).

Un altro amico (lui per fortuna vivo e vegeto) dice che la questione palestinese è il termometro morale della sinistra. Si badi bene, della sinistra, non degli ebrei o degli israeliani.

E cosa aspettiamo allora a chiedere con determinazione un intervento urgente di interposizione internazionale a tutela delle vite umane e di una prospettiva di pace?