«Se gli israeliani mi costringeranno ad andare in Rwanda allora morirò». Gabriel, nome scelto a caso per coprire la sua identità, non ha più certezze. Eritreo, 27 anni, entrato illegamente in Israele quattro anni fa per sfuggire al lungo servizio militare obbligatorio nel suo Paese e a minacce degli apparati di sicurezza, ora è sicuro solo di una cosa: non uscirà vivo dal Rwanda. Gli chiediamo di spiegarci le ragioni delle sue paure. «Alcuni ragazzi eritrei che erano qui – racconta – e che sono partiti (su pressione di Israele, ndr) per il Rwanda mi hanno scritto di una situazione drammatica, di abusi e di persone sparite nel nulla». Ci troviamo nel mercato adiacente a via Levinsky, non lontano dalla stazione degli autobus di Tel Aviv. Nei giardinetti di Levinsky per anni si sono radunati i richiedenti asilo africani, in gran parte sudanesi ed eritrei. Ora vivono nascosti. Gabriel accetta di parlare con noi solo dopo le rassicurazioni avute da un nostro contatto. «Niente foto mi raccomando. Siamo in pericolo, mi nascondo, ci nascondiamo tutti. Ma sappiamo che loro (i funzionari del Dipartimento popolazione e immigrazione, ndr) sanno dove trovarci». La conversazione dura pochi minuti. Gabriel prima di lasciarci e di svanire nel nulla ci dice che forse «sceglierà di andare in prigione» piuttosto che lasciare Israele per il Rwanda. Nelle prigioni del Neghev comunque non sarà una vacanza.

Due giorni fa il governo israeliano ha emesso un avviso. Se i 27.494 eritrei e 7.869 sudanesi che si trovano nel Paese non andranno via volontariamente entro il 1 aprile, accettando un biglietto aereo e 3.500 dollari, saranno incarcerati a tempo indeterminato. Il piano esenta, per ora, i bambini, gli anziani e le vittime della schiavitù e della tratta di esseri umani. Le garanzie offerte non convincono affatto l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) secondo il quale il provvedimento viola le leggi internazionali. Per l’esecutivo israeliano, forte del sostegno di buona parte dell’opinione pubblica, in particolare degli israeliani dei quartieri meridionali di Tel Aviv dove per anni hanno vissuto gli africani, al contrario è tutto regolare e legale. Il premier Netanyahu ha più volte affermato che l’afflusso e la presenza degli africani minaccia il «carattere ebraico» di Israele. E due giorni fa il ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan, possibile successore del primo ministro, ha addirittura parlato di «provvedimento storico» che permetterà a migliaia di israeliani di ricominciare una esistenza normale, sena gli africani. Non sorprende l’approvazione alla decisione di Netanyahu giunta dalla Lega che ha esortato l’Italia a fare altrettanto e a cacciare via migranti e richiedenti asilo.

La chiamano “rimozione accelerata” ma è una deportazione mascherata dal piccolo incentivo economico offerto agli africani per andare via volontariamente in alternativa al carcere, e dagli accordi che il governo israeliano ha raggiunto con il Rwanda e l’Uganda. Questi due Paesi si sono detti disposti ad accogliere sudanesi ed eritrei, dietro il versamento nelle loro casse di 5mila dollari per ciascun espulso e, si sussurra, di forniture militari ed appoggi diplomatici. L’Uganda però smentisce di aver raggiunto un accordo con Tel Aviv per accogliere gli africani ai quali il governo Netanyahu ha intimato di lasciare il Paese. «Non abbiamo alcun accordo di questo genere con il governo israeliano perchè mandi qui i migranti – ha detto ieri il ministro degli esteri, Henry Okello Oryem – Israele deve essere in grado di spiegare questa affermazione. Questa informazione deve essere considerata falsa». Tuttavia nessuno crede alla smentita di Kampala. Le autorità ugandesi probabilmente preferiscono fare le cose in segreto, dietro le quinte e non alla luce del sole, per evitare imbarazzi.

«Gli eritrei e i sudanesi fanno bene ad avere paura perché in Rwanda ed Uganda corrono dei pericoli reali», spiega al manifesto Sigal Avivi, una attivista dei diritti dei richiedenti asilo e dei migranti. Avivi, che abbiamo incontrato ieri a Tel Aviv, un anno fa è andata in quei due Paesi per seguire il percorso di alcuni dei circa 20mila africani che hanno già «lasciato» Israele. «È tutto molto grigio, opaco, a cominciare dalla impossibilità di avere accesso qui in Israele all’elenco dei richiedenti asilo già partiti», dice l’attivista, «durante il mio viaggio in Rwanda e Uganda ho avuto incontri importanti ma anche tante difficoltà ad ottenere informazioni. Ho accertato però che gli africani (partiti da Israele) vengono subito fermati e interrogati una volta giunti a destinazione. Poi sono inviati in qualche centro o località che non sempre nota». Avivi ha constatato che l’impossibilità per i nuovi arrivati di ottenere il rispetto dei loro diritti e una vita dignitosa li spinge a lasciare subito Rwanda e Uganda. «Perciò sono vittime ancora una volta dei trafficanti di essere umani» prosegue «vengono fatti passare per gli Stati confinanti, poi in Sud Sudan e spesso anche in Sudan, quindi trasportati attraverso il deserto fino alla Libia da dove sperano di andare via mare in Europa, ma in Libia subiscono violenze, torture e spesso sono ridotti in schiavitù».

Peraltro pochi riescono ad arrivare in Libia, aggiunge Avivi. «Il passaggio per il deserto significa la morte per molti di loro, senza dimenticare che anche il mare fa le sue vittime durante i viaggi sulle imbarcazioni di fortuna dirette alle coste italiane – ci dice – in Europa ho incontrato africani che erano qui in Israele e mi detto che tanti dei loro compagni sono morti, di stenti nel deserto, di malattie o affogati. Chi invece torna nei Paesi d’origine, specialmente in Sudan, è arrestato e punito severamente per essere stato in Israele. Sappiamo che 6mila sudanesi e 2mila eritrei sono già stati costretti a rimpatriare e di loro non si sa più nulla». Netanyahu, conclude l’attivista, «deve fermare le espulsioni e concedere finalmente l’asilo a tutte queste persone giunte in Israele per sfuggire a guerre e violenze».

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