Sicurezza, bombardamenti o meno su Gaza, Iran. Le elezioni israeliane si giocano sul solito noto. E scompaiono, nel mare magnum di accuse e controaccuse dei candidati sul trattamento dei nemici esterni, le condizioni di vita dei cittadini israeliani.

Eppure da anni Israele si aggiudica la poco onorevole palma di paese più diseguale dell’Ocse: oltre il 20% di tasso di povertà, welfare scarno, diseguaglianze strutturali tra gruppi sociali e crescente gap tra ricchi e poveri.

Ne abbiamo parlato con Momi Dahan, economista israeliano alla School of Public Policy della Hebrew University di Gerusalemme.

In campagna elettorale economia e società sono assenti. Perché?

Queste elezioni sono uniche: il dibattito è incentrato su sicurezza e affari internazionali da una parte e sul comportamento criminale del premier Netanyahu. Etica e non etica tolgono ossigeno al resto. Nelle elezioni precedenti, economia e disuguaglianze erano molto più importanti, almeno per l’opinione pubblica. Le ragioni sono tre. Innanzitutto la crescita positiva degli ultimi anni e un tasso di disoccupazione molto basso, sul 4%. In secondo luogo una restrizione del tasso di disuguaglianza, che seppur minimo dal punto di vista dell’elettore è visto come trend positivo. E infine il comportamento del premier: la maggior parte della gente è preoccupata dai pericoli che corre lo Stato di diritto, è qualcosa che è sentito come un rischio più imminente.

Lei in passato ha compiuto analisi del voto mettendo in relazione le preferenze elettorali alla classe sociale di appartenenza. Le conferma?

Più o meno il fenomeno è lo stesso: le classi medio-alte votano per la sinistra e il centrosinistra, la classe media va verso il Likud e la destra. Le classi più povere, i palestinesi e gli ultraortodossi, votano per i rispettivi partiti, arabi i primi e religiosi i secondi. La spiegazione sta nella relazione tra senso di sicurezza e successo economico: le classi alte tendono a votare meno sulla spinta della prima, al contrario della classe media che si fa guidare verso destra.

Negli anni ’80 Israele passò da una visione laburista dell’economia a una neoliberista: privatizzazioni, precarietà, meno welfare. Politiche che esplosero nel 2011 con le proteste degli indignados. Da allora però non si sono manifestate altre tensioni.

Nel 2011 la protesta, larghissima, era divisa in due: chi era preoccupato per sé, per il costo della vita, e chi voleva di più e chiedeva giustizia sociale. La stessa leadership della protesta si divise tra due piattaforme, una più di destra e una legata al partito laburista. Oggi quelle tensioni non ci sono e il motivo è la composizione delle fasce povere: i poveri sono gli arabi e gli ultraortodossi, che non raccolgono il consenso generale. I poveri sono frammentati, è molto difficile unirli: due gruppi che possono essere mobilitati da direzioni politicamente opposte. Gli ultraortodossi non si mobiliteranno mai con i palestinesi. Tutto ciò si lega alla scarsa generosità del welfare israeliano: molti ebrei laici non sono contenti di riconoscere aiuti agli haredim perché non vestono la divisa dell’esercito e non partecipano al mercato del lavoro. Né sono contenti di aiuti finanziari agli arabi.

Le colonie però ricevono aiuti consistenti. Esistono due welfare, di cui uno, il più generoso, si applica solo alle colonie in Cisgiordania?

I benefici sociali riconosciuti a disoccupati, anziani, disabili, che reputo le colonne portanti della sicurezza sociale, sono uguali, non dipendono dal luogo di residenza. È vero che le persone nelle colonie ottengono aiuti extra ma non lo considero parte del welfare state. Si può criticare quell’aiuto ma non penso si possa parlare di due sistemi diversi.

La società israeliana è molto diseguale: alto tasso di povertà, differenze di accesso al mercato del lavoro. Una frammentazione che sembra seguire linee etniche e confessionali: i più poveri sono i palestinesi, gli ebrei etiopi e di origine araba.

C’è una correlazione tra gruppi sociali e condizioni di vita. Israele è sotto la media dei paesi Ocse nella diseguaglianza nei redditi disponibili. Arabi e ultraortodossi hanno più probabilità di essere poveri anche perché il welfare israeliano è tra i meno generosi (14% del pil a fronte di una media Ocse del 22%, ndr). Nel caso degli arabi interviene la diseguale allocazione di istruzione pubblica e infrastrutture e la discriminazione nel mercato del lavoro.