Si sentono traditi, i palestinesi. Sui social e per le strade ripetono di essere stati svenduti dai «fratelli arabi». Ieri sono scesi in piazza pressoché ovunque nei Territori Occupati, dalla Cisgiordania a Gaza, hanno marchiato con una X i manifesti con l’immagine del principe emiratino bin Zayed, di Trump e del premier israeliano Netanyahu, hanno bruciato la bandiera di Abu Dhabi e sventolato quella palestinese.

È successo a Ramallah, Gaza City, Nablus, Gerusalemme. Migliaia di persone hanno protestato dopo la preghiera del venerdì contro l’accordo di pace tra Israele ed Emirati arabi. A Gerusalemme si sono ritrovati ad al-Aqsa, a Nablus hanno intonato slogan di condanna di quella che definiscono una coltellata alle spalle. Cortei a Yatta, Kafr Qaddum, Salfit.

UNA COLTELLATA, però, attesa. La rabbia si mescola alla frustrazione, alla stanchezza. E alla consapevolezza che dal Golfo mai si è sollevata una voce contro l’occupazione militare. Condanne a parole, una tantum, nulla di più. Dei meeting dietro le quinte e la normalizzazione ufficiosa si sapeva già tutto.

Eppure resta l’amarezza per l’ennesima porta che chiude fuori rivendicazioni secolari, bypassate rendendo normali i rapporti con uno Stato che occupa terre e diritti. Un altro tassello nella legittimazione dell’occupazione, dicono i palestinesi, che per la terza volta – dopo Egitto e Giordania – arriva da un paese arabo.

Ieri è intervenuta anche l’Autorità nazionale palestinese, dopo le condanne unanimi espresse da Fatah, Hamas, Jihad islamica e dalla sinistra del Pflp e del Dflp. Il presidente Abu Mazen ha ordinato il rientro dell’ambasciatore palestinese da Abu Dhabi.

LA STESSA AZIONE l’ha minacciata il presidente turco Erdogan, noto sostenitore a parole del popolo palestinese mentre con l’altra mano fa accordi energetici con Israele e ha normalissimi rapporti diplomatici. Ieri in un messaggio televisivo Erdogan ha annunciato la possibile sospensione dei rapporti diplomatici con gli Emirati, definendo il trattato di pace «un boccone che non possiamo digerire».

Non ha citato il gelo che caratterizza le relazioni con la monarchia dal 2016 quando pubblicamente accusò Abu Dhabi di complicità nel tentato golpe. Né lo scontro a distanza (ma non troppo) in Libia, con la Turchia a difendere Tripoli e gli Emirati Bengasi, che appena un mese fa aveva portato Erdogan ad accusare il rivale di sostenere organizzazioni terroristiche.

Di reazioni ai cosiddetti Accordi di Abramo ne sono arrivati da tutto il pianeta, dalle proteste del Sudafrica post-apartheid alle felicitazioni dell’India di Modi che di Israele ha da tempo fatto un modello securitario da copiare.

E POI C’È L’EUROPA che ha espresso il suo favore tramite l’Alto Rappresentante agli Affari esteri: «Saluto la normalizzazione Israele-Eau. Beneficia entrambi ed è importante per la stabilità regionale», ha scritto su Twitter, per poi definire «un passo positivo» la sospensione del piano israeliano di annessione del 30% della Cisgiordania occupata.

SULLA STABILITÀ REGIONALE chi sicuramente avrà da ridire è l’Iran, tra i principali se non il primo obiettivo dell’asse «sunnita-israeliano», nato negli anni passati intorno alla creatura della Nato araba. Ieri il ministero degli esteri di Teheran ha definito «vergognosa» la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi e ha avvertito: «Il governo degli Emirati e gli altri governi amici devono accettare la responsabilità di tutte le conseguenze di quest’azione».

Perché, aggiunge la nota, «questo atto di stupidità strategica rafforzerà l’asse della resistenza». Teheran ostenta sicurezza, ma è ben consapevole di come il cerchio si stia stringendo: un conflitto diplomatico o militare gestito da Usa, Israele e Golfo non è una fantasia.