Il rifiuto del judoka Islam el Shehaby, ai Giochi di Rio, di stringere la mano al suo avversario israeliano Or Sasson e le parole del ministro degli esteri Sameh Shoukry che, rivolgendosi a un gruppo di studenti, ha escluso che l’uccisione di bambini palestinesi da parte di Israele sia un “atto di terrorismo”, hanno fatto emergere la frattura su Israele tra la popolazione egiziana e il regime di Abdel Fattah al Sisi. Il rifiuto di el Shebaby, disapprovato a livello internazionale ha invece raccolto larghi consensi in una opinione pubblica egiziana contraria all’avvicinamento in corso tra il Cairo e Israele. La pace di Camp David, rimasta fredda per oltre 30 anni è diventata tiepida nell’ultimo anno e la sua temperatura pare destinata a salire ulteriormente nel medio periodo. «Due fattori spingono al Sisi verso Israele» dice l’analista Ghassan al Khatib «uno è il coordinamento di sicurezza tra i due Paesi, l’altro è il disperato bisogno dell’Egitto di aiuti economici. Al Sisi e il suo stretto entourage ritengono che il miglioramento delle relazioni con Israele garantirà all’Egitto maggiori sostegni finanziari da parte dell’Occidente».

La recente visita di Sameh Shoukry in Israele, a oltre dieci anni di distanza dall’ultimo viaggio a Tel Aviv di un ministro degli esteri egiziano, il fair play energetico tra i due Paesi che controllano alcuni dei giacimenti sottomarini di gas più imponenti del Mediterraneo e le pressioni (dietro le quinte) del Cairo sul presidente palestinese Abu Mazen affinchè incontri il premier israeliano Benyamin Netanyahu, sono soltanto alcune manifestazioni dell’atteggiamento favorevole di al Sisi verso lo Stato ebraico. «I leader palestinesi sono delusi» spiega Ghassan al Khatib «ma non possono fare molto per cambiare questa rotta. Assistono impotenti al ritorno in Egitto, anche in diplomazia, dell’era (dell’ex presidente) Hosni Mubarak».

L’alleanza organica che al Sisi sta stringendo con Netanyahu, il più a destra della storia di Israele e il meno incline ad accogliere le richieste dei palestinesi sotto occupazione militare, avviene mentre l’Egitto per evidenti ragioni economiche stringe i rapporti con l’Arabia saudita e le altre petromonarchie del Golfo. Ad eccezione del Qatar, sponsor finanziario e politico dei Fratelli Musulmani rimossi dal potere in Egitto con il golpe di tre anni fa e proclamati “terroristi”. Resta “nemica” anche la Turchia, sostenitrice come il Qatar della Fratellanza. Al Sisi, con ogni probabilità si rende conto che l’alleanza con l’Arabia saudita lega le mani all’Egitto in politica estera e accresce tensioni tra il regime e la popolazione. Hanno fatto il giro del mondo le proteste degli egiziani per la cessione-restituzione a Riyadh delle isolette di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso nel quadro di un ampio accordo che porterà nelle casse egiziane diversi miliardi di dollari. Tuttavia al Sisi non può fare altro se non allearsi con la ricca monarchia saudita che, peraltro, sta a sua volta migliorando le relazioni con Israele, prima nemico e ora partner nel “contenimento” dell’Iran. E il forte appoggio dato dal Cairo a Khalifa Haftar nasce anche dalle pressioni di Riyadh schierata con il generale libico.

A schiacciare al Sisi sono la situazione economica dell’Egitto e il costante aumento demografico. La popolazione potrebbe arrivare a 140 milioni nel 2030, se dovesse continuare l’attuale trend di crescita al 2,4%, e il regime non pare in grado di dare risposte concrete, con piani economici realistici, ai bisogni attuali e futuri del Paese, a partire dai posti di lavoro. Non impressiona l’enfasi del leader egiziano sui «successi ottenuti» durante la cerimonia per il 60esimo anniversario della nazionalizzazione del Canale di Suez e per il primo anniversario del suo raddoppio un anno fa. «Chiedo agli egiziani di prendere le distanze da chi mette in dubbio i progetti nazionali e loro realizzazione…Abbiamo scavato il nuovo Canale di Suez, abbiamo risolto i problemi dell’elettricità, delle strade e coltivato 1,5 milioni di feddan. L’Egitto recupererà il suo prestigio» ha assicurato al Sisi. Le cose non stanno così. L’autostrada del mare non ha ancora raddoppiato il traffico e garantito l’aumento degli incassi dei moli a 13,2 miliardi di dollari entro il 2023. Potrebbe inoltre rivelarsi un buco nero per le finanze statali il progetto a lungo termine di costruzione della centrale nucleare a Dabaa mentre molti centri abitati e aree produttive del Paese hanno bisogno subito di una maggiore disponibilità di energia.

I conti ormai sono stabilmente in rosso. Le riserve nette in valuta estera dell’Egitto sono scese a 15,5 miliardi di dollari alla fine di luglio, due miliardi in meno rispetto a giugno. Dati figli anche del calo del 50% delle presenze turistiche nella prima metà del 2016 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. I ricavi da questo settore fondamentale hanno segnato un calo del 60% rispetto al 2015 quando le entrate sono state pari a 6,1 miliardi di dollari, mentre nel primo trimestre di quest’anno hanno toccato i 500 milioni di dollari. Conseguente è stata l’ulteriore svalutazione della lira egiziana di fronte al dollaro e il regime sa che non sarà certo il disegno di legge in discussione in Parlamento a fermare le speculazioni sul mercato nero che portano il biglietto verde a tassi di cambio differenti da quelli ufficiali. Inevitabile perciò è stato il ricorso al Fondo monetario internazionale che garantirà al Cairo un prestito triennale del valore di circa 12 miliardi di dollari in cambio, tra le altre cose, di politiche per la riduzione del debito pubblico egiziano dal 98% all’88% del Pil e della attuazione della tassa sul valore aggiunto (Iva). Politiche che graveranno sulle famiglie povere o a basso reddito. A garanzia del prestito del Fmi e di una maggiore stabilità della valuta egiziana è giunto immediato un deposito da parte degli Emirati arabi di un miliardo di dollari nella Banca d’Egitto. Al Sisi respira. La sua politica estera però resta prigioniera delle petromonarchie. L’Egitto chiude nel cassetto il desiderio di tornare ad essere il Paese guida del mondo arabo.