«Quando la sera vado a riprendere i miei due figli, non ho la certezza di trovarli vivi». È la frase agghiacciante pronunciata l’altro giorno da una giovane madre eritrea intervistata dalla radio militare israeliana.

Parole che descrivono uno dei drammi più gravi che vivono tanti eritrei, sudanesi e altri migranti africani in Israele, costretti per necessità a lasciare i figli per tutto il giorno in asili nido improvvisati e privi di strutture minime. Sono dei “depositi per bambini” a tutti gli effetti, dove le condizioni sono disumane e pericolose: dall’inizio dell’anno sono morti cinque piccoli, l’ultimo, di soli 4 mesi, tre giorni fa. A lanciare l’allarme è una Ong locale, “Ali di Crembo”. I suoi volontari denunciano che in Israele ci sono decine di questi “depositi” che ospitano oltre 2000 bambini, su una popolazione di migranti eritrei e sudanesi di circa 42 mila persone. Bambini di fatto abbandonati a se stessi che sono stipati per ore ed ore in ambienti poco areati, quasi senza cibo, spesso con un unico pannolino per tutto il giorno. Una neonata è morta soffocata dal proprio biberon.

È intervenuta anche la leader del partito Meretz, Zahava Galon, che ha lanciato un appello al premier Netanyahu affinchè intervenga con urgenza. Ma è improbabile che l’esecutivo scenda in campo facendosi completamente carico della condizione di questi bambini, visto che ha imposto negli ultimi anni un giro di vite sull’immigrazione. Israele di recente ha ulteriormente irrigidito la sua posizione. I migranti africani, riferiscono i media locali, nei prossimi giorni saranno convocati e messi di fronte alla scelta se stabilirsi in Uganda o in Ruanda (con voli pagati da Israele e con assegni per far fronte alle prime necessità) oppure andare incontro alla deportazione con la forza. Si opporrà rischia di essere rinchiuso nel carcere di Saharonim, nel deserto del Neghev. Duemila africani si trovano già nella cosiddetta “struttura aperta” di Holot, di fatto un altro centro di detenzione per migranti sempre nel Neghev.

Nonostante le proteste dei centri per i diritti umani locali e internazionali, le autorità israeliane proseguono la loro politica. Secondo i dati del governo lo scorso anno 5.803 immigrati avrebbero scelto di “lasciare” Israele e di andare in Ruanda e Uganda. Resta incerta anche la condizione dei richiedenti asilo.

Israele negli anni passati ha riconosciuto questo status in pochissimi casi nonostante un numero elevato di migranti provengano da paesi sconvolti da gravi conflitti armati o dove sono sistematicamente violati i diritti umani. Le autorità invece ritengono che gli africani entrati illegamente nel Paese lo abbiamo fatto per cercare lavoro e non per sfuggire a guerre e persecuzioni. Le norme per le espulsioni perciò sono applicate spesso anche nei confronti dei richiedenti asilo.

Le risoluzioni delle Nazioni Unite obbligano gli Stati a rendere pubblici gli accordi di “trasferimento” dei richiedenti asilo e ad accertarsi che poi siano protetti nel paese di accoglienza. Tel Aviv al contrario continua a non rivelare i punti degli accordi con Ruanda ed Uganda. «Dubito che tali patti siano messi per iscritto. Gli stessi Stati coinvolti negano che ci siano delle intese», denuncia Oded Peler, responsabile per i migranti all’Associazione per i Diritti Civili «(gli espulsi) sono accolti in Paesi terzi senza avere uno status giuridico né la rassicurazione che non saranno consegnati alle autorità dei loro Stati d’origine. Israele è tenuto a comunicare quale è il prezzo che paga per potersi disfare dei richiedenti asilo, in soldi, in armi o in altri modi».