Un tubo in gola o nel naso fino allo stomaco: questo potrebbe essere il destino dei due prigionieri attualmente in sciopero della fame in un carcere israeliano. Abbas al-Sayyid, da 16 anni in carcere con 36 ergastoli sulle spalle, rifiuta il cibo da 12 giorni per ottenere migliori condizioni di vita in prigione; Mohammad Suleiman, giordano, da 13 giorni: chiede di poter scontare la pena nel suo paese.

Dopo anni di tentativi, il parlamento israeliano ha approvato giovedì la controversa legge sull’alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame, storico strumento di protesta dei prigionieri politici palestinesi, con cui dal 1967 hanno ottenuto concessioni importanti dal sistema carcerario dell’occupante.

Con 46 voti a favore contro 40, la Knesset ha aperto la strada ad una pratica considerata dalle Nazioni Unite «forma di tortura e trattamento degradante». Immediatamente si sono sollevate le voci di protesta della comunità internazionale. Ma Tel Aviv non intende cedere e non è un caso che la legge sia stata approvata proprio dopo l’accordo strappato da Khader Adnan, noto prigioniero che per due volte non ha toccato cibo per mesi costringendo le autorità israeliane a riconoscere i suoi diritti. Israele non vuole lasciare più spazio alla protesta contro le quotidiane violazioni nei confronti dei 6mila prigionieri politici palestinesi ad oggi in carcere. Lo ha detto il ministro per la Pubblica Sicurezza, Gilad Erdan: la legge serve perché «gli scioperi della fame dei terroristi sono diventati un modo per minacciare Israele».

«L’obiettivo israeliano è chiaro: distruggere il movimento dei prigionieri. Da decenni Tel Aviv prende misure volte a indebolire una delle colonne della resistenza palestinese, ma questo è il passo più drastico mai compiuto – spiega al manifesto Randa Wahbe, ricercatrice di Addameer, associazione palestinese che tutela i diritti dei detenuti politici – Negli anni ’70 e ‘80 lo sciopero della fame di massa ha permesso il riconoscimento di diritti basilari, come avere un letto o una penna per scrivere. All’epoca Israele intervenì con l’alimentazione forzata: 4 palestinesi morirono e la Corte Suprema emise una sentenza che vietava la pratica. Nessun prigioniero è morto per sciopero della fame, ma per alimentazione forzata sì».

Pericolosa per le possibili conseguenze, ma soprattutto contraria all’etica medica. Su questo si fonda la protesta dell’Associazione Medica Israeliana (che presenterà appello alla Corte Suprema) e delle organizzazioni locali per i diritti umani: «Il governo israeliano parla a sproposito di tutela della vita umana. Ma la questione è un’altra: la dignità del paziente – ha detto Yoel Donchin di Physicians for Human Rights – La legge introduce una forma di tortura, il governo non è autorizzato a decidere come un paziente deve essere trattato. Io non ho prigionieri, ho pazienti e non violenterò la loro dignità né il loro corpo».

Su questo gioca il governo israeliano: non si tratta di alimentazione forzata, ma di un mero trattamento volto a salvare una vita. La realtà è ben diversa: come spiega Addameer, Israele pare interessato alla vita dei prigionieri solo quando sfidano con la fame il sistema, e non quando – dall’arresto all’interrogatorio fino alla detenzione – quella stessa vita è messa in pericolo da pestaggi e torture fisiche e psicologiche.

Se ne è resa conto anche l’Onu: «Perché la questione è finita oggi nell’agenda israeliana? Perché ci sono prigionieri che protestano contro la violazione dei propri diritti – ha detto James Turpin, responsabile dell’Ufficio Diritti Umani Onu a Ramallah – La questione dovrebbe essere trattata, sì, ma diversamente: non forzando i prigionieri a mangiare, ma riconoscendo loro diritti fondamentali».

Ventisei scioperi di massa nei 48 anni di occupazione israeliana dei Territori hanno fatto del movimento dei prigionieri una spina nel fianco di Israele: nelle carceri i prigionieri studiano, si formano una coscienza politica, ispirano la società fuori.

«La legge è pericolosa perché legalizza le violazioni dei diritti – ci dice Randa Wahbe – Anche se non riusciranno a piegare un movimento che da decenni difende la causa palestinese, la minaccia di una tortura spaventerà chi intende perseguire uno sciopero della fame. I prigionieri pagheranno un prezzo alto per la loro lotta. È una forma di pressione che andrà a colpire anche i medici contrari a tale pratica: saranno allontanati o rimossi con l’accusa di violare i valori etici medici».