Compie 54 anni la festa di ogni estate del Teatro Povero di Monticchiello. Una storia importante, diversa da ogni altro palcoscenico, da quando a metà degli anni 60 i suoi abitanti decisero di reagire alla fine del «boom», e soprattutto della mezzadria che aveva segnato le «regole» dell’Italia contadina nel dopoguerra, mettendo in scena, anzi letteralmente in piazza, la loro condizione fatta di spaesamento e di memoria, ma anche di grande forza civile. Storie all’apparenza «ingenue», ma che spesso hanno raccontato, meglio di tanti trattati, la situazione esistenziale e politica non solo delle terre della val d’Orcia, al cui centro l’antico paese troneggia, ma dell’Italia intera. Storie vissute e descritte dagli stessi abitanti, che prima ancora di farsi attori ad agosto, riflettevano ed elaboravano lungo i mesi invernali. L’interesse e il successo li hanno accompagnati lungo gli anni e il progressivo passaggio generazionale, fino a farne quasi un marchio, un unicum che pure vale sempre la pena conoscere (e confrontarcisi). Seguendo l’evoluzione di quella particolare prospettiva da cui vedere il mondo, magari con la curatela di un artista, come per diversi anni ha fatto Andrea Cresti firmandone la regia e l’impronta.

È EVIDENTE che questo fatidico 2020 non poteva non risentire della pandemia Covid, che ha mutato, e continua a condizionare, vita e prospettive dell’intero pianeta. Gli abitanti di Monticchiello però non hanno voluto demordere, e con tutte le delimitazioni imposte dai regolamenti, hanno voluto ugualmente portare la loro testimonianza. Lo spettacolo di quest’anno però, titolo significativo Isole d’istanti, evita l’assembramento facendosi itinerante, per piccoli gruppi contingentati di spettatori. Che partono a distanza di venti minuti uno dall’altro, per le diverse stazioni lungo le antiche strade (ovviamente affascinanti quanto poco agevoli), a partire dalle 20,40, ancora fino al 15 agosto. Fino al 23 invece continueranno le ghiottonerie alla Taverna del Bronzone, l’altro richiamo della stessa comunità del teatro.

CONDOTTO da una guida che mima i vezzi dell’accompagnamento turistico, il pubblico assiste così ai diversi episodi, alcuni in piedi altri a sedere. Ma questi momenti solo a tratti sono in grado di evocare la storia e l’anima del paese antico. Più spesso, e forse era difficile evitarlo, propongono l’imitazione di quanto ognuno di noi ha vissuto e subìto a casa propria nel mesi del lockdown. Il già visto e vissuto può costituire un rischio di banalità, un po’ come succede in certe ricostruzioni televisive (l’esempio più clamoroso è quello dei due giovani in crisi alla vigilia del matrimonio, lei che vuol restare chiusa in casa e lui che invoca il ritorno alla precedente festevolezza).
Per fortuna, sul finire, gli ultimi episodi squarciano visioni di grande e sofferta vitalità. Come quando un gruppo di abitanti decide di tornare a imbracciare i propri strumenti musicali, in una commovente (quasi straziante) ronda del tempo perduto, e della voglia di riconquistarlo.