Sono in sciopero della fame dal 22 settembre una parte dei circa 300 Rohingya trasferiti lo scorso maggio dalla Marina militare bangladese a Bhashan char, l’isolotto del Golfo del Bengala su cui il governo di Dacca intende trasferire almeno 100 mila degli 850 mila Rohingya che vivono nei campi sovraffollati di Cox Bazar dall’estate 2017. Quando per sfuggire al tentato genocidio delle autorità birmane hanno attraversato il fiume Naf che divide i due Paesi.

I CIRCA 300 ROHINGYA sono parte di un gruppo di 1.400 rifugiati che avevano lasciato i campi di Cox Bazar tentando di raggiungere via mare la Malaysia. Respinti dalle autorità malesi, hanno fatto ritorno nelle acque bangladesi, dove gli uomini della Marina militare hanno tratto in salvo alcune barche trainandole fino a Bhashan char, isolotto instabile, emerso meno di venti anni fa con l’accumulo dei detriti che il fiume Meghna scarica nel Golfo del Bengala, uno degli estuari più dinamici al mondo e una delle aree più colpite da cicloni e dagli effetti dei cambiamenti climatici.

Proprio lì sull’isolotto di Bhashan char (o Thengar char), che in lingua bengali significa «isola fluttuante», il governo ha costruito una piccola città-galleggiante, con un progetto (Ashrayan-3) costato 250 milioni di euro che, assicurano a Dacca, ha reso l’isola sicura e protetta.

Non la pensano così i 300 Rohingya che vi risiedono, a cui era stato garantito che sarebbero rimasti sull’isolotto soltanto per i 14 giorni di quarantena. E che ancora oggi vivono lì. Come in prigione, secondo le testimonianze raccolte di recente dal quotidiano The Guardian e da Amnesty International, che ha pubblicato pochi giorni fa un nuovo aggiornamento, Let Us Speak for Our Rights, «Lasciateci parlare dei nostri diritti».

DIRITTI NEGATI A BHASHAN CHAR: cibo scarso, sovraffollamento (fino a 5 persone costrette in stanze da 15 metri quadrati), scarsa assistenza sanitaria, acqua contaminata, obbligo di restare negli alloggi, negata dunque la libertà di movimento. E abusi sessuali o veri e propri stupri da parte dei poliziotti sull’isola ai danni di alcune donne Rohingya.

Mahbub Alam Talukder, Commissario bangladese per i rifugiati, nega categoricamente che siano avvenuti abusi sessuali. E assicura che nessun rifugiato verrà trasferito forzatamente sull’isola.

Ma Amnesty International ricorda che lo stesso confinamento prolungato dei rifugiati sull’isolotto «è una violazione degli articoli 9 e 12 degli obblighi assunti dal Bangladesh adottando la Convenzione internazionale per i diritti civili e politici». E invita Dacca a «riportare in modo sicuro tutti i rifugiati Rohingya attualmente a Bhashan char nei campi di Cox Bazar e assicurare che i rifugiati siano consultati, senza coercizione, su ogni piano futuro di eventuale ricollocamento sull’isola», come dichiarato da David Griffiths, direttore dell’ufficio del segretario generale di Amnesty International.

È quanto chiedono i Rohingya in sciopero della fame dal 22 settembre: tornare nei campi di Cox Bazar e abbandonare l’isola-prigione. Dacca rema in direzione opposta. Il piano per il trasferimento di 100 mila Rohingya oggi a Cox Bazar su Bhashan char è stato più volte rimandato, a causa dell’opposizione degli stessi rifugiati e delle obiezioni e perplessità delle organizzazioni per i diritti umani e delle stesse Nazioni unite, che continuano a chiedere un’inchiesta indipendente per verificare la vivibilità dell’isola.

DACCA CERCA PERÒ di convincere i Rohingya: il 5 settembre ha organizzato la visita di una quarantina di rappresentanti delle comunità che vivono nei campi di Cox Bazar per rassicurarli. Al rientro, quelli che hanno obiettato o parlato ai media sono stati zittiti. Perché il trasferimento rimane una delle priorità del governo retto dalla “lady di ferro”, Sheikh Hasina: l’accordo con il governo del Myanmar per il rientro in patria dei Rohingya è in stallo; i campi di Cox Bazar sono sovraffollati e «l’isola è pronta e sicura», ripetono a Dacca.