«Originale saggio autobiografico». È la definizione che si legge nella «quarta» del libro di Mario Isnenghi Vite vissute e no (il Mulino «Biblioteca storica», pp. 327, e 24,00). Originalità: è già nel titolo, dove l’io narrante e protagonista si rivela solo nel sottotitolo I luoghi della mia memoria e anche qui oggettivato dall’opposizione «mia» e «luoghi»: perché la memoria non venga interiorizzata del tutto ma si apra anche all’esterno, ai luoghi appunto, allo scenario in cui di volta in volta si colloca. E vite vissute si presta per un attimo all’ambiguità subito smentita da quel «no» che svela l’enigma: sono le molte esperienze di vita dell’autore, quelle che lo hanno coinvolto e quelle da lui eluse o rifiutate. Un’autobiografia, dunque, nonostante tutto.
Ma non solo. Una vita vissuta accanto e attraverso altre vite, una rassegna di nomi, volti, di eventi di cui Isnenghi si fa spettatore e attore, entrando e uscendo dalla scena. Un’ampia, fantasmagorica scenografia sostenuta da una scrittura scattante, lievemente scanzonata, del tutto antiretorica. Non un memoir, nel senso più comune del termine. Non un libro di formazione anche se di esperienze costruttive si parla. Ma ancora un libro di storia, ma di quella storia vissuta, sofferta, a lungo meditata, indagata warburghianamente nei dettagli – di cui Isnenghi è maestro illustre.
Ciò non toglie che l’impostazione è – anche a scorrere l’indice – quella delle tappe di una vita, a partire dalle memorie familiari all’iter scolastico, dall’interazione con le vicende pubbliche al lungo percorso di insegnante nelle scuole e poi docente all’Università, collaboratore di giornali, scrittore di libri famosi e via via fino alle «rese dei conti» (rese, e non resa, perché i fili da convogliare sono molti e alcuni rimangono ancora sospesi).
Ma l’originalità risiede anzitutto nel modo in cui è concepito il «patto autobiografico» e che giustifica in pieno quel «mia» applicato alla memoria. Fin dall’inizio siamo travolti da nomi in parte sconosciuti (professori di scuola media e di liceo, tra cui Giovanni Tuni, Sandro Gallo, Agostino Zanon Del Bo: nomi che diventano figure quasi familiari grazie alla capacità dell’autore di «animarle» evocandole con vivide pennellate), o da personaggi più noti (don Germano Pattaro e l’esperienza della FUCI, Wladimiro Dorigo e l’avventura della rivista «Questitalia») e, con il passaggio all’Università, Toni Negri e il Movimento studentesco, Gianni e Cesare De Michelis e la fondazione della casa editrice Marsilio, Lorenzo Renzi, Silvio Lanaro, Gian Piero Brunetta, e ancora Mario Baratto, Ennio Di Nolfo, Giorgio Rochat e tanti altri ancora.
E, in mezzo a tutto questo, i libri e i luoghi.
Su Isnenghi docente universitario, sui suoi libri – che hanno come epicentro la Grande Guerra –, sulle iniziative culturali, sull’impegno nel giornalismo, sulle relazioni illustri – non mi soffermo: sono troppo note e come tali anche Isnenghi le tratteggia con spirito breve.
È la microstoria che, dopo un primo momento di smarrimento, finisce con l’avvincerci e coinvolgerci nel tessuto di una vita vissuta intensamente e intensamente condivisa, con uno sguardo che spazia da ciò che è immediatamente vicino a ciò che si vede in lontananza, in un andare e venire che, alla fine, è ricchezza interiore, generosità , partecipazione (come diceva Giorgio Gaber).
I luoghi. Chi non conosce la Parigi di Patrick Modiano, premio Nobel 2014, le viuzze nascoste, i piccoli bar, l’articolata mappa «personale» del suo autore? Ecco, questa è la Venezia in cui ci conduce Isnenghi, calli e callette, case e palazzi, su e giù per i ponti come se tutti sapessero dove si va e cosa si trova, e lo stesso vale per Chioggia, la città dei «luminosi giorni». I punti fermi della mappa interiore di Isnenghi.
Tra questi luoghi vogliamo isolare gli «angoli» forse più vissuti, forse prediletti: gli anni dell’Istituto tecnico industriale Marconi di Padova (con il preside Giuseppe Trainito e con Leonzio Pampaloni, Bianca Balduino, Giulio Alessi, Iginio De Luca), il breve soggiorno torinese (con Adriana Lay, Nicola Tranfaglia, Aldo Agosti), i seminari della Gargonza (con Sergio Bertelli, Pietro Clemente, Enrico Pozzi, Monica Centanni) e gli anni dell’Altipiano di Asiago, quasi metà della vita, con i Giovedì o Venerdì della Storia, e ancora Giorgio Rochat, Lanaro, Brunetta, Franzina, senza contare la partecipazione costante di Mario Rigoni Stern. Facendo un passo indietro nei ricordi più remoti, hanno un posto importante anche la Liguria degli anni quaranta, Il Trentino dei quaranta/cinquanta, soggiorni d’antan dove Mario ritorna in cerca di una memoria non ancora contaminata dalla morte.
La morte. Le morti. Sono le «pietre d’inciampo» in cui la storia si arresta per dare spazio a quell’interiorità controllata e tuttavia incisiva propria dell’autore. Gianni De Michelis. Silvio Lanaro. Ma anche Giuliano Lucchetta, indimenticabile preside delle magistrali di Chioggia nei «giorni luminosi».
È in quei momenti che l’io-me in cui l’autore ama sdoppiarsi, diventa «io» a tutto tondo, la ferita c’è stata anche se la cicatrice è nascosta, invisibile ai più. Gli amici, molti ma pochi legati a lui da quella philia dei Greci antichi, che è parola intraducibile e designa un’empatia incomprensibile alla civiltà occidentale. Amici evocati col solo nome – Caterina, Isabella – perché non possono essere «di tutti» e tuttavia non possono essere passati sotto silenzio.
E infine due donne: la madre, la moglie. Compaiono a tratti, ma invadono prepotentemente la scena, «volitive e decisioniste anche per lui». Sono i punti di riferimento in assoluto, che permettono a Mario, come riconosce lui stesso, di trascorrere liberamente da un luogo all’altro, da un’esperienza a un’altra, nella sicurezza di avere alle spalle un porto sicuro dove ammarare.
I fili annodati laboriosamente lungo la vita si spezzano con la morte di entrambe. La morte di Sandra è debitamente annotata (una caduta accidentale, nella casa di Asiago). Ma nelle pagine del libro lei rivive positiva e vivace, determinata con delicatezza, intraprendente piena di tatto. A lei è dedicato il libro perché in lei si raccolgono tutte le vite, tutti i luoghi, tutte le memorie. Ed è il suo nome che chiude il libro, in un contesto gioioso, quello del viaggio di nozze che vede Mario e Sandra a Tunisi, dove li attende Giuliano Lucchetta, il preside dei «giorni luminosi» il cui ricordo allontana le ombre della morte.
Una lunga carrellata, a volte un diluvio di nomi e fatti su cui l’autore sembra trasvolare, spettatore e anche attore, ma mai interamente coinvolto, sempre pronto a rinunciare a qualsiasi impresa che richieda, da parte sua dei compromessi. Ed è questo Isnenghi che alla fine fa intravedere, e ammirare, le sue qualità di fondo: il coraggio e la libertà. Doti quanto mai rare ma ben radicate in lui. Il coraggio di misurarsi con le situazioni, nel variare delle svolte storiche; la libertà di affrontare con disinvoltura e «leggerezza» i fasti e le miserie di una vita accademica vissuta con impegno e dedizione, con seguito di allievi di alto livello, ma sempre nel ricordo di Chioggia, quando l’impegno era eguale (l’insegnamento era sacro per lui ) ma la vita scorreva più luminosa, all’alba delle speranze.