«Siamo in guerra!». Nello slogan che ormai mette d’accordo editorialisti di destra e di sinistra, l’aspetto veramente stravagante non è tanto la riesumazione dello scontro di civiltà di Huntington e delle grossolanità di Oriana Fallaci sull’Islam. È l’assoluta mancanza di consequenzialità strategica. Viene voglia di rispondere: e allora che volete fare? Espellere tutti i musulmani? Chiudere le moschee? Esigere un giuramento di fedeltà allo stato, alla laicità o al diritto di satira? Aumentare i consiglieri militari in Iraq? Bombardare Derna? Invadere lo Yemen? Ovviamente, nulla di tutto ciò.

E allora non sarà l’unanime grido di guerra che sale dalle redazioni dei quotidiani, dai talk show e dai commenti televisivi una manifestazione di impotenza o magari di un desiderio inconsapevole?

L’errore sta esattamente nella catena di equazioni che sottintendono il grido di guerra: «terrorismo» uguale Jihad uguale «fanatismo islamico» uguale «Islam radicale» uguale «Islam» tout court. Ne consegue che dietro ogni velo o barba indossata da qualcuno che si professa islamico c’è un terrorista reale o potenziale. Da qui la grottesca richiesta di dissociazione rivolta in ogni sede o spazio dell’opinione pubblica agli islamici. Come se, per dire, a madame Santanché o al giovane Salvini si fosse richiesto a suo tempo di dissociarsi da Breivik, il quale, tra l’altro, uccise 77 persone. Una richiesta ridicola, ovviamente. Ma allora non è il caso di riflettere sull’equazione «guerra all’Islam uguale guerra al terrorismo»?

Io non sono credente e ritengo che un serio dibattito sul rapporto tra alcune forme di Islam, soprattutto politico, democrazia e secolarizzazione vada affrontato, in particolare a sinistra, in cui si è un po’ esagerato con l’apologia del differenzialismo. Ma credo anche che il primo compito delle persone responsabili, soprattutto se esercitano una funzione pubblica, sia distinguere e non unificare fenomeni del tutto diversi sotto la stessa etichetta, oggi inebriante e rassicurante, ma domani foriera di ulteriori disastri.

L’Isis non è al Qaida, i talebani pachistani non sono quelli afghani, L’Arabia saudita non combatte l’Isis in nome della libertà di parola, Saddam e Gheddafi erano dei dittatori feroci, ma abbatterli è stato uno degli errori più gravi che i paesi occidentali abbiano potuto commettere, il tradizionalismo religioso non si traduce necessariamente in estremismo e questo in terrorismo e così via. Un groviglio di questioni che chiamano in causa non solo la natura delle società di là – quelle che vengono giudicate incapaci di darsi istituzioni solide, ma che sono state rapidamente private, dai jet occidentali, di quelle che avevano.

Così, è vero che l’ostilità per l’occidente di alcune frange di musulmani non può essere spiegata solo con l’incancrenirsi della situazione palestinese o con slogan anti-colonialisti. Ma è anche vero che leader occidentali accecati come Bush, Blair, Sarkozy e Cameron (in Libia, con il recalcitrante assenso di Obama) hanno distrutto regimi senza alcuna idea di quello che sarebbe venuto dopo, creando disastri umani immensi e quindi un risentimento del tutto comprensibile.

Che il risentimento e l’odio per i simboli occidentali, insieme certamente alla volontà di potenza, alla negazione violenta della libertà femminile e così via, assuma oggi le forme del fascismo religioso dell’Isis, non significa che nei conflitti in corso gli aspetti politici non siano dominanti. La crisi attuale è figlia del risentimento di là e dell’arroganza di qua. Ci piacerebbe che tutti quelli che oggi blaterano di guerra tra l’occidente e l’Islam pensassero anche alle guerre volute dai nostri brillanti statisti in Africa in Asia, nell’indifferenza dell’opinione pubblica e nella supponenza dei suoi opinionisti.