Da progetto statuale ad arcipelago semi-virtuale: il cammino (apparentemente all’indietro) dell’Isis ha attraversato l’ultimo anno, segnato dalla perdita delle città-simbolo del sogno di ricostruzione del califfato sunnita. Con Kobane apripista della reconquista nel 2015, sono cadute una ad una Palmira, Mosul, Sinjar, Raqqa. Uno stillicidio che per le comunità a cavallo tra Siria e Iraq – i territori evocati dal nome con cui lo Stato Islamico si fece scoprire dal mondo nel 2014 – si è tradotto in esodo, morte, distruzione.

E all’agognata liberazione (giunta a carissimo prezzo per i civili come dimostrano rapporti indipendenti sulle vittime delle diverse battaglie) non è seguita ricostruzione: i due Stati falliti di Damasco e Baghdad arrancano, ognuno con la propria guerra civile che cova sotto la cenere.

L’Isis si è riadattato, mai scomparso. Opera in rete, mare dove pesca adepti e denaro, e sul territorio. Abbandonata l’amministrazione statuale, fatta di brutale legislazione interna, tasse, contrabbando di petrolio e gestione dei «confini», l’attentato terroristico è divenuto marchio di fabbrica tra Siria e Iraq. Ma anche in Libia e Yemen, altri esempi di Stati falliti per mano straniera, della Nato il primo, dell’Arabia saudita il secondo: nei due assordanti vuoti di potere l’Isis avanza. Nel paese nordafricano con piccole cellule sfrutta la frammentazione dell’autorità in una galassia di poteri auto-legittimati; nel devastato paese del Golfo confronta la madre tradita al Qaeda pescando adepti tra tribù compiacenti e mercenari filo-sauditi.

Resiste anche in Egitto, paladino occidentale della lotta al terrorismo che si traduce in leggi d’emergenza per mettere a tacere le opposizioni, mentre copti, sufi e sunniti in Sinai pagano il prezzo doppio del terrorismo e della repressione.