Con gli occhi del mondo puntati sul nord della Siria – seppure i volenterosi governi della coalizione preferiscano non guardare – lo Stato Islamico in Iraq opera quasi indisturbato. Le milizie del califfato sembrano inarrestabili. Tanto da portarsi a 13 km da Baghdad. La capitale del fallito Stato iracheno è a due passi, dopo la conquista jihadista di alcuni sobborghi ad Abu Ghraib. Vicinissimi all’aeroporto internazionale, dove sono presenti 300 militari Usa a fare da forza di sicurezza e a 15 km in linea d’aria dalla Zona Verde e l’ambasciata di Washington.

A preoccupare il presidente Obama, dall’altro lato dell’oceano, sono le armi in mano agli islamisti: la scorsa estate, durante le razzie compiute in svariate basi militari irachene, frettolosamente abbandonate dall’esercito governativo, si rifornirono di 1.500 veicoli militari Humvees americani e di artiglieria pesante, in particolare di 52 lanciamissili capaci di sparare fino a 32 km di distanza. Avrebbero in mano anche i missili anti-aereo Manpad.

Grave la situazione anche nella vicina provincia di Anbar, al confine con la Siria, la cui presa garantirebbe all’Isis un corridoio diretto: i jihadisti stanno colpendo il capoluogo Ramadi. Baghdad è, nella pratica, quasi circondata.

A difesa della capitale ci sono 60mila soldati iracheni affiancati da 12 team di consiglieri militari Usa, ma le scarse capacità dell’esercito governativo, smembrato dall’occupazione Usa e ricomposto su basi clientelari e di affiliazione politica ed etnica, non rassicurano. La divisione settaria del dopo-Saddam è una delle cause dell’avanzata dell’Isis, capace di far leva sulla rabbia della comunità sunnita marginalizzata dal nuovo potere sciita.

Ieri due autobomba sono saltate in aria a Baghdad, ad un checkpoint e in un quartiere sciita: almeno 17 morti, oltre 40 feriti. Un kamikaze si è fatto invece esplodere in un mercato nella città di Mashahda, uccidendo 11 persone e ferendone 20. A Tikrti venerdì era stato giustiziato dall’Isis Raad al-Azzawi, giornalista iracheno di Salahuddin Tv. Uccisi insieme a lui altri 12 civili.

E se il nuovo premier al-Abadi tenta di riavvicinare i sunniti al governo centrale proponendo la creazione di unità sunnite locali anti-Isis, a far tremare Baghdad sono proprio le milizie sciite che operano indisturbate nel paese, approfittando del parziale vuoto di autorità. Combattono l’Isis ma senza seguire ordini ufficiali e, si teme, prima o poi – probabilmente armi in pugno – reclameranno la loro parte di bottino politico: «Quando la guerra sarà finita, queste milizie torneranno a Baghdad per chiedere quello che pensano gli spetti in termini di partecipazione al processo decisionale – pronostica Izzat al-Shabandar, ex parlamentare di Stato di Diritto – Se il governo si rifiuterà di rispondere, rivolgeranno le armi contro l’esecutivo».

Dall’altra parte del confine, prosegue la battaglia nella città curda di Kobane. Ieri mattina i miliziani islamisti hanno lanciato una nuova offensiva a ovest, ma sono stati respinti dopo due ore di duri scontri dai combattenti curdi. Le Unità di protezione popolare (Ypg) combattono casa per casa, strada per strada. Ma, denunciano, i jihadisti arrivano con i carri armati e vengono costantemente riforniti da est.

Ai curdi, che in mano hanno solo kalashnikov, non mancano i combattenti volontari ma le armi: le munizioni stanno finendo, il corridoio di possibile approvvigionamento dalla Turchia resta a secco e gli appelli ad Ankara e Occidente perché sostengano Kobane come sostengono i peshmerga cadono nel vuoto. I secondi, fidati alleati Usa, «meritano» l’aiuto negato ai curdi di Rojava, nord della Siria, e al Pkk, al loro fianco: l’esperienza di confederalismo democratico, uguaglianza di genere ed economia partecipata di Kobane spaventa Ankara e Washington che temono un contagio al di là della frontiera.