È dentro la guerra che conta Palmira, centro chiave di un’antichissima carovaniera fra l’Arabia meridionale, la Siria e il medio Eufrate nota dai primi archivi del secondo millennio a.C. Splendido e potente centro romano, oggi per noi patrimonio, fra l’Impero e l’Oriente sino alla Cina.

Le grandiose rovine nel deserto e il vicino centro abitato scosso dalla guerra sono una storia di paesaggio sino al nome (l’arabo Tadmor, di antica derivazione aramaica) che richiama la palma e il dattero. Ma la sua luce è meno suggestiva di quella «Luce d’inverno» di Montale dedicata proprio a Palmira. In mezzo a bombardamenti, postazioni, polvere e sangue teniamo il fiato sospeso. Ed è tangibile la rassegnazione fra chi ha a cuore quello che chiamiamo «patrimonio mondiale dell’umanità».

Le rovine fanno da scenario alle teste mozzate. Teatro, castello, santuari diventano «colonne», dice il Giornale, più importanti della vita dell’uomo: le stesse parole usate da Isis. Non troppo dissimile l’estraneità al valore dei luoghi, del patrimonio archeologico come parte e segno della nostra umanità.

Perché tutto questo succede? Lo sguardo lungo nel corso del tempo che mi fornisce l’archeologia vede ricorrenti distruzioni di luoghi e monumenti, dissacrazioni degli dèi altrui (a meno che non valessero molto, sia religiosamente che come valore materiale), l’affermazione volta per volta di una propria superiorità che ben di rado ha conservato ciò che oggi chiamiamo patrimonio.

Poi si raggiunge la Modernità, il giro di boa dal quale provengono le generazioni a noi più vicine e immediatamente precedenti, con l’idea della tutela; e le storie dell’uomo, comprese guerre e sopraffazioni, diventano patrimonio che a tutti serve: perché solo se non viene distrutto esso ci può dare, con il suo racconto, le chiavi della comprensione se non del futuro almeno del passato. Quel passato, se compreso, diventa paesaggio amico.

Ma questa cultura della cultura non è dappertutto uguale. E la divisione fra buoni e cattivi, il suo collimare fra Occidente e Oriente, non funziona. All’integralismo di Isis, religioso e «fascistoide» e con forte strato pre-moderno, si affianca lo sgomento per l’operato e l’ipocrisia dell’Occidente, che l’ha finanziato nella campagna contro il presidente siriano Assad e che certamente non ha dato ottima prova di amore per il patrimonio archeologico. Il capitalismo contemporaneo – di cui Isis è parte integrante – subordina la cultura all’interesse finanziario, promuove e foraggia un traffico illecito dei reperti archeologici che in Iraq e Siria si è sempre arricchito.

Mentre ideologicamente le identità dei dominanti combinano racconti guerriere dalle storie antiche, e gli integralismi religiosi rivendicano la proprietà totale delle terre in nome di Dio o di qualche suo delegato, negando l’esistenza ad altri popoli. La distruzione del patrimonio «degli altri» ci appartiene, è questo il vero debito pubblico.

Quanto sono compatibili perciò le nostre istanze moderne della tutela con quanto succede? Ci sono azioni possibili? Domande che fanno emergere risposte dure e negative, visto che un’azione internazionale di tutela «non di parte» non può né vuole essere applicata, ed è evidente l’isolamento dell’Unesco, organismo importante ma emanazione di un Onu nel quale gli Usa hanno sempre fatto il bello e il cattivo tempo, trovato appoggi per invasioni sulla base di false pistole fumanti, come in Iraq; se non decapitando impiccando.

Come tentato in Siria ed evitato per l’intervento della Russia: ma il danno del sostegno politico ed economico alla costituzione dello stato islamico era già stato fatto.

Il fatto è che la ricostruzione e il rinnovamento delle norme e degli impegni internazionali per la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico non può coincidere con i responsabili della guerra del Golfo e della guerra alla Siria e alla Palestina, di chi ha costruito colonialismo, orientalismo e guerre del petrolio, negando popoli e identità. Che la platea legislativa andrebbe ampliata, assieme a quella esecutiva. Inevitabilmente, dipenderà molto dall’economia.

Magari non riusciremo a salvare Palmira come non siamo riusciti a farlo a Nimrud, Khorsabad, Hatra (anche se forse le colonne romane emozionano le false coscienze dei governi occidentali più di un’antica residenza assire), e la sua distruzione si inscriverà nella lunga storia di eventi affini.

Ma si può iniziare a costruire premesse e unità diverse da quelle che hanno prodotti questi orrori, perché essi non si ripetano.

Provando a risolvere «altre» questioni, da quella palestinese a quella kurda, e non cedendo democrazia. Allora avrà un senso combattere contro questo nuovo, nero nazismo integralista. Oppure, rassegniamoci a un incremento dell’archeologia della guerra, alla quale daremo il nostro contributo.