Se c’è un autore a cui non si saprebbe applicare la categoria di ‘stile tardo’ elaborata da Edward Said, questi è Filippo Coarelli. Archeologo di fama internazionale, da oltre mezzo secolo produce fondamentali lavori sul mondo greco-romano in modo non diverso, ora che è ultraottantenne, da come faceva ai suoi esordi, negli anni sessanta del secolo scorso.
Immutati permangono la passione per la ricerca e il rigore euclideo delle dimostrazioni, supportato da una padronanza straordinaria delle fonti letterarie e della documentazione materiale. Gli anni non hanno attenuato neppure la vis polemica della sua prosa, che sa rendere sapida una materia che può risultare ostica ai più (una dote, questa, che ha ereditato dal suo maestro Ranuccio Bianchi Bandinelli). Gli accademici sanno distillare oblique perfidie nei confronti dei colleghi di cui non condividono le tesi. A Coarelli, accademico malgré lui, preme più stabilire la verità storica che demonizzare l’avversario, ma certo non le manda a dire.
Una costante nei suoi lavori è la critica alla settorialità: è insofferente nei confronti di quegli studiosi che guardano alla storia antica col paraocchi del loro specialismo e non sanno inserire i dati in un contesto più ampio, confrontandosi con altre discipline. Per Coarelli, come già per il grande filologo Giorgio Pasquali, «non esistono discipline, ma solo problemi da risolvere». Da sempre poi egli ha una spiccata avversione per i cosiddetti ‘ribassisti’, coloro che per eccessiva prudenza – il più delle volte dettata da un pregiudizio – tendono a datare i fenomeni storici a un’epoca più recente rispetto a quella che si evince da una lettura spassionata delle fonti.

Da Alessandria d’Egitto
Entrambi questi Leitmotive si ritrovano nel suo ultimo libro: Initia Isidis L’ingresso dei culti egiziani a Roma e nel Lazio (Agorà & Co., pp. XV-163, € 35,00). Pur essendo noto al grosso pubblico soprattutto per la sua guida archeologica di Roma (un best- seller che ha avuto diverse riedizioni da quando apparve nel 1974), molti sono i suoi interessi, e tra questi vi è quello per il culto di Iside nel mondo romano. A questo tema ha dedicato in passato almeno una dozzina di saggi, dei quali questo libro costituisce, a detta del suo stesso autore, una summa «a futura memoria». Può sembrare una ricerca di storia delle religioni come tante, ma è molto di più: è la chiave di accesso all’affascinante laboratorio di uno studioso (ma spendiamo pure la parola ‘maestro’…), che ha passato la vita a indagare il mondo antico con un’acribia e un’energia che non cessano di stupire.
La questione che qui Coarelli pone con forza è quella della data di introduzione del culto isiaco nel mondo romano. Iside giunse a Roma, insieme al suo sposo Serapide e al loro figlio Arpocrate, da Alessandria d’Egitto, dove i Tolomei avevano accortamente promosso il loro culto per accomunare l’élite dei nuovi padroni greci e i sottoposti indigeni. Coarelli è convinto che le condizioni per la penetrazione della religione isiaca in Italia fossero presenti già nel III secolo a.C. Contatti tra Roma e l’Egitto tolemaico ci furono fin da quando, nel 273 a.C., i due stati stabilirono rapporti diplomatici ufficiali, come attesta una fonte tarda ma affidabile, in quanto deriva dall’autorevole Tito Livio. Gli storici moderni si mostrano però scettici al riguardo, perché per i successivi sessant’anni non ci sarebbe traccia di altri rapporti. A ciò Coarelli ribatte osservando che questo silenzio è semplicemente dovuto alla perdita della seconda decade della Storia di Roma di Tito Livio, che copriva il periodo compreso tra il 292 e il 219, mentre indizi di segno contrario si ricavano prendendo in considerazione un contesto più ampio, che tenga conto di tutti gli scambi commerciali e culturali. Il misterioso poemetto Alessandra, per esempio, composto da un certo Licofrone vissuto ad Alessandria all’epoca di Tolomeo Filadelfo (285-246 a.C.), profetizza un ruolo da grande potenza per i discendenti dei Troiani (ossia i Romani): secondo Coarelli l’opera fu ispirata proprio dalla corte tolemaica, che aveva buoni rapporti con Roma e teneva a mantenerli. Più tardi i rapporti si estesero anche alla cultura figurativa: sappiamo che nella prima metà del II secolo a.C. un pittore di paesaggi alessandrino era attivo a Roma, e che più avanti mosaicisti alessandrini realizzarono il famoso mosaico nilotico di Palestrina.

Quale Lucio Emilio Paolo?
Certo, tutto questo, Coarelli lo ammette, non prova di per sé la contemporanea presenza di culti egiziani in Italia; ma non si può non essere d’accordo con lui quando stigmatizza la sistematica lettura ‘ribassista’ delle fonti che potrebbero attestarlo. Tipico il caso della notizia riportata dallo storico Valerio Massimo, secondo cui il console Lucio Emilio Paolo avrebbe eseguito l’ordine del senato di abbattere i santuari di Iside e Serapide. A quale epoca è riferibile l’evento? Dato che ci sono più consoli con questo nome, tutto dipende da quale scegliamo. Per tutta una serie di buone ragioni è più probabile che si tratti di quello vissuto nel II secolo a.C., ma la maggior parte degli storici opta invece per un altro del secolo successivo, proprio per la resistenza ad ammettere l’esistenza di santuari del culto egiziano a Roma in un’epoca così antica. Eppure da Tito Livio sappiamo che sullo scorcio del III secolo a.C. a Roma erano penetrati molti culti stranieri, che venivano praticati non solo tra le pareti domestiche ma anche nel Foro e sul Campidoglio. Perché non ritenere quanto meno possibile l’introduzione dei culti egiziani già a quell’epoca? Coarelli ricorda giustamente una frase di quel grande storico delle religioni che fu Angelo Brelich: «Mostrare che qualcosa non è sicuro o non è dimostrabile, è giusta critica: l’ipercritica comincia là dove il “non sicuro” diventa “sicuramente no”. La risposta all’incertezza non è la negazione, ma la sospensione del giudizio: vi sono certamente molte cose che non sono dimostrate e dimostrabili, che sono vere». È questa la più importante lezione metodologica che Coarelli ci trasmette, qui e in altri luoghi di questo volume.

Il santuario di Palestrina
Ampio spazio egli dà al ruolo avuto da Delo nella diffusione del culto isiaco in occidente. Sull’isola, che fu porto franco dal 166 a.C. e attirò numerosi mercanti romani e italici, le divinità alessandrine erano particolarmente venerate, ed è naturale pensare che esse abbiano ‘viaggiato’ sulle rotte commerciali che vi facevano capo. Incomprensibile appare però la tesi dei ‘ribassisti’, che vuole che ciò sia avvenuto solo dopo il rimpatrio dei negotiatores italici a causa dei rovinosi saccheggi subiti dall’isola nell’88 e nel 69 a.C. Il culto di Serapide è sicuramente attestato a Pozzuoli (il principale terminale dei traffici da e per Delo) prima del 105 a.C. e il culto di Iside è inconfutabilmente presente sul Campidoglio fin dagli ultimi decenni del II secolo a.C. Né appare strano che a gestirlo fosse un’associazione di mercanti di schiavi, se si pensa che Delo era il più importante hub di quella particolare merce. Da ciò Coarelli trae un’altra importante lezione: «la pretesa separazione tra economico e religioso (parallela a quella tra religioso e politico) rivela così la sua matrice ideologica, del tutto moderna e quindi anacronistica e mistificante rispetto alle realtà antiche». Al contrario, nelle sue pagine è possibile seguire, tra repubblica e impero, proprio l’intreccio tra religione isiaca e politica, individuare le differenze sostanziali tra culto privato e culto pubblico e capire le ragioni autentiche del favore o dell’avversione di cui di volta in volta fu fatta oggetto.
L’ultima parte del libro è dedicata al santuario di Fortuna Primigenia a Palestrina. Nelle mani di Coarelli la vecchia antiquaria diventa uno strumento affilato di assoluta modernità. Così, passo dopo passo, ci convince che il cosiddetto ‘Santuario Inferiore’ altro non è che un Iseo-Serapeo, e che col soprastante tempio di Fortuna Primigenia – peraltro pienamente assimilabile a Iside – fa parte di uno stesso, grandioso progetto architettonico-urbanistico concepito negli ultimo decenni del II secolo a.C.
La cosa in fondo era sempre stata sotto gli occhi di tutti, ma nessuno, o quasi, l’aveva saputa vedere. Per riuscire a tanto «il faut des hommes qui connaissent autre chose que les livres», come diceva Voltaire. Filippo Coarelli è uno di questi.