Un africano a New York. Un passato da combattente bambino e un presente da intellettuale raffinato e cosmopolita, idealmente sospeso tra l’Africa e la metropoli-mondo della Grande Mela. Ishmael Beah, classe 1980, aveva suscitato enorme emozione con il suo drammatico Memorie di un soldato bambino (Neri Pozza), il diario della sua educazione al combattimento, tra Ak47 e hip hop, nel cuore di tenebra della guerra civile della Sierra Leone che ha insanguinato il paese tra il 1991 e il 2002, divenuto un bestseller internazionale.
Inserito in un programma di sostegno delle Nazioni Unite, Beah è arrivato negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta dove ha potuto studiare e laurearsi in Scienze politiche prima di dedicarsi alla causa della protezione dei bambini nell’ambito dello Human Rights Watch Children’s Rights.
Oggi torna alla letteratura con un romanzo maturo, serrato e corale che si legge come una metafora delle speranze di futuro dell’intero continente africano. Domani sorgerà il sole(Neri Pozza, pp. 272, euro 16,50) – che Beah ha presentato durante il Salone del libro di Torino – racconta il difficile ritorno a casa nel villaggio di Imperi di un gruppo di persone che hanno partecipato a vario titolo alla guerra civile della Sierra Leone: Mama Kadie e Pa Moiwa che hanno visto i propri cari uccisi sotto i loro occhi e che cercano di dimenticare e l’ex insegnante della scuola media locale Bockarie che è tornato per iniziare una nuova vita. L’ombra della guerra, l’arroganza di chi si è arricchito con il conflitto, le mire delle multinazionali, torneranno però a risvegliare i vecchi fantasmi, mettendo a rischio il sogno di un avvenire di pace coltivato dai protagonisti.

Dalle memorie di un bambino soldato che ha conosciuto una nuova chance di vita, al doloroso ritorno a casa di chi ha preso parte al conflitto. Il suo nuovo romanzo racconta la sfida più difficile dopo tanto odio?

Credo proprio di si. Personalmente, da quando è finita la guerra nel 2002, sono già tornato tante volte nel mio paese e oggi posso dire di vivere in qualche modo a metà strada tra New York e l’Africa. Però, la maggior parte delle persone non ha avuto una nuova occasione altrove come me: per loro tornare a casa, in una casa che molto spesso non c’è più, in un villaggio o in una città devastati completamente dal conflitto, è davvero l’unica possibilità. Si tratti di vittime o carnefici delle tragedie del passato, nel romanzo ho scelto di raccontare le storie di entrambi, è questo il momento più duro. Non si devono soltanto fare di nuovo i conti con ciò che è accaduto, ma, soprattutto, con ciò che non c’è più. In tutti i sensi. Spesso chi torna nel proprio villaggio stenta a credere a quello che vede: da un lato ci sono i ricordi che ci si è portati dietro, dall’altro una realtà che nel frattempo è completamente cambiata. Molti sono spaesati, confusi: tutto è così diverso. All’inizio si tratta di un’esperienza dolorosa, poi lentamente, queste persone riescono ad assaporare l’intensità e la bellezza dell’essere tornati a casa, malgrado le contraddizioni in cui sono immersi. Da quel momento cominciano di nuovo ad immaginare un futuro. È questa idea di una vita che riprende, malgrado tutto, che sta alla base di Domani sorgerà il sole.

Un futuro che passa anche per la riconciliazione nazionale che la Sierra Leone, al pari di quanto accaduto in Ruanda e Sudafrica, ha cercato di costruire. Come sono andate le cose?

Resta ancora molto lavoro da fare. Sull’esempio dei due paesi che ha citato, anche da noi è sorta una Commissione per la verità e la riconciliazione voluta dalle Nazioni unite per tentare di chiudere definitivamente il capitolo drammatico degli anni della guerra civile. Purtroppo però, malgrado la comunità internazionale abbia giudicato positivo il lavoro svolto da questo organismo, credo che proprio nel suo modo di operare sia emersa tutta la distanza che spesso esiste tra la realtà dell’Africa e il modo in cui si cerca di affrontarne i problemi da parte del mondo occidentale. Mi spiego. Nel mio paese la Commissione ha operato quasi esclusivamente nella capitale, Freetown, e non ha coinvolto affatto chi vive nei villaggi e nei centri minori, vale a dire la maggioranza della popolazione. Ma i limiti dell’operazione non hanno riguardato solo questo aspetto. Nella cultura africana esistono da sempre metodi e pratiche tradizionali per superare i conflitti e fare la pace dopo che si è sparso del sangue.
Ad esempio, nei villaggi si riuniscono intorno al fuoco i protagonisti di una tragedia, i responsabili diretti ma anche i parenti di vittime e aggressori, perché parlino tra loro. A questo incontro, che può durare per molte ore, assiste l’intera comunità locale che ascolta in silenzio mentre le parti in causa cercano di ritrovarsi, di tirare fuori il loro dolore; e se ce la fanno, anche di perdonare. La Commissione per la verità però non ha coinvolto i gruppi di mediatori che sostengono queste pratiche. Non ha preso in considerazione neanche per un attimo l’idea che le ferite del paese andassero curate anche ricorrendo alle sue tradizioni. Perciò, perché stupirsi se di riconciliazione si parla ancora come di qualcosa di incompiuto?

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Nel romanzo, questo tema si accompagna ad un’altra considerazione negativa sul ruolo che in Sierra Leone hanno giocato le multinazionali occidentali. Eppure lei vive da tempo a New York, il suo sguardo non è mutato per questo?

Ho conservato sempre la lucidità necessaria per guardare alla situazione senza pregiudizi. Vivere tra Africa e Stati Uniti mi ha aiutato a non trarre solo un bilancio negativo del rapporto tra il mondo occidentale e il mio paese. Certo, le devastazioni naturali e le vere e proprie tragedie, guerre comprese, che in particolare le multinazionali dei diamanti hanno provocato in Sierra Leone sono sotto gli occhi di tutti. Ma davvero si può pensare che ciò sarebbe potuto accadere senza l’appoggio di una parte consistente delle élite locali? Se nessuno si è opposto a che delle società straniere mettessero a ferro e fuoco il mio paese, evidentemente le colpe vano ricercate anche tra i politici, i militari e l’intero establishment della Sierra Leone. Dico questo, perché in altri paesi c’è stato chi si è opposto, chi ha puntato i piedi. In Ghana e nel Botsawana, la questione dei permessi di scavo per le multinazionali è stata gestita in modo molto fermo. La conseguenza di questo atteggiamento fermo è che quei paesi stanno conoscendo un forte sviluppo economico. Questi esempi ci dicono che si poteva procedere in un altro modo, ma, come racconto nel romanzo, in Sierra Leone si è scelto di spalancare le porte alle multinazionali.

«Domani sorgerà il sole» sembra indicare che una via d’uscita dalla situazione del suo paese può essere trovata volgendosi alla cultura locale e al recupero della tradizione orale: come conciliare queste radici con il suo lavoro di scrittore?

La tradizione orale del mio paese è a fondamento non soltanto di ciò che scrivo e di come lo scrivo, ma anche di quello che sono. Sono state le storie orali che mi raccontavano quando ero bambino che mi hanno per molti versi introdotto al lavoro del narratore, di colui che crea storie da raccontare agli altri. Quella modalità di racconto orale è ciò che in assoluto ha esercitato la maggiore influenza sul mio modo di scrivere e pensare. Perciò, nei miei romanzi cerco di far affiorare nelle parole e nei modi di dire che utilizzo tutta la ricchezza della mia lingua madre, il mende, e l’enorme tradizione orale da cui discendo. Del resto, le storie sono il fondamento della nostra vita.